Mai come in questa stagione cinematografica Hollywood ha dimostrato di aggrapparsi al passato. Non solo per la massiccia proposta di pellicole realizzate da maestri, come Scorsese, Allen, Malick e Spielberg, che ormai hanno fatto la storia del cinema americano, ma anche per l’omaggio degli stessi al cinema dei loro predecessori e a un’iconografia visiva antica, lontana da qualsiasi realtà contemporanea. Senza contare l’operazione più estrema nei confronti del cinema muto del ben più giovane francese Michel Hazanavicius con The Artist, l’omaggio alla Monroe con My Week with Marilyn, il racconto dei diritti civili nel vintage The Help o più semplicemente il classicismo dei generi negli odierni L’arte di vincere (il cinema sportivo) e Le idi di marzo (quello politico). Basta dare una scorsa alle nomination agli Oscar per accorgersene (anche nel versante interpreti con nomi come Glenn Close, Gary Oldman, Christopher Plummer, Max von Sydow, Nick Nolte, etc). Ma fra tutti gli autori di popolar lignaggio e della generazione che negli anni Sessanta e Settanta ha rimodulato il cinema americano, Spielberg compie un’operazione tanto evidente quanto grossolana nel ritornare alle radici dell’estetica del suo mestiere. Un’altra lezione di cinema, che questa volta trae ispirazione dalla Hollywood più classica. Dietro la storia del cavallo Joey sullo sfondo della Grande Guerra si nasconde tutta l’epicità degli sfondi fordiani, in particolare nella parte iniziale sviluppata nella fattoria della famiglia Narracott nel Devon, dove sembra di rivedere gli accesi tramonti di Un uomo tranquillo e le cupe ombre di Com’era verde la mia valle, fino alla scena finale, estetizzante all’inverosimile, che riporta all’essenza stessa del cinema di Ford (pensiamo alla sequenza conclusiva de Il massacro di Fort Apache o Alba di gloria ad esempio).
Spielberg ricerca lo sguardo fordiano non solo nei campi lunghi delle colline e delle vallate inglesi, ma anche nei suoi attori caratteristi, nelle sue donne invecchiate precocemente dai lavori di fatica, nella caricatura degli uomini abbrutiti dal tempo e dal troppo bere, sguardi ironici e duri che trovano nelle performance di Peter Mullan e Emily Watson un ottimo veicolo fisico. E nel rapporto fra il cavallo e il suo ostinato padroncino adolescente si celano classici per famiglie degli anni Quaranta di grana un po’ più grossa: Gran Premio (1944) del mestierante Clarence Brown, con una immacolata Elizabeth Taylor e un arrogante Mickey Rooney o tutti i cicli di pellicole sul cane Lassie. Per la prima guerra mondiale, parte centrale del film, c’è solo l’imbarazzo della scelta a cui far riferimento tra scene di trincee, combattimenti, troviamo angolazioni di Milestone, Kubrick, Monicelli, etc. Ma il difetto della regia di Spielberg paradossalmente è tutto qua: nel ricercare assolutamente inquadrature specifiche che riportano a tutto quel cinema, nel mostrare quanto è bravo a riprodurle, nel dimostrare di conoscere la storia del cinema, senza però dare un taglio più profondo. Infatti, pur scegliendo temi e toni che si accostano perfettamente a quell’immaginario filmico, il regista lo tradisce non cercando di ricreare il disagio e la sconfitta che si celavano dietro quelle storie. Perché questo film è tutto una celebrazione della vittoria invece.
Le carrellate, i piani lunghi, i bozzetti di una società lontana e pura contornati di epica e buoni sentimenti privi di un chiaroscuro narrativo a un certo punto risultano stucchevoli, probabilmente soprattutto per una questione di sceneggiatura. Quel che è certo, invece, è la professionalità dei fedeli e veterani collaboratori del regista, che dimostrano di saper cucire, montare, immortalare, registrare, tagliare e rimodulare questa storiella classica per famiglie, che più classica non si può. Sono, in realtà, il suo montatore Michael Kahn, il suo direttore della fotografia Janusz Kaminski, i suoi tecnici del suono a farne un film di un certo valore, laddove Spielberg funge da semplice coordinatore. Una pellicola che sprigiona innocenza, dove la giovinezza, l’infanzia, l’amicizia fra l’uomo e il diverso (in questo caso il cavallo) sono i temi cardine del regista, che sussistono in un volteggiare di correttezza. Tanto da trasudare retorica, esasperata dalla tronfia colonna sonora di John Williams (se non è tronfia la sua 47esima nomination all’Oscar per questo film!), fra le verdeggianti e vaste colline di un inizio Novecento, che sembra ancora innocente, lontano dall’industrializzazione. Un ritratto favolistico, dove anche la bruttura della guerra assume contorni epici e puri. Tra un’educata comicità e una commozione facilona, War Horse è costruito con il medesimo scopo dei classici: intrattenere il grande pubblico in uno spettacolo grondante di buoni sentimenti. E questa massima Spielberg, nel bene e nel male, non l’ha mai tradita. Peter Bogdanovich diceva che il tema principale dei film di John Ford era la “gloria nella disfatta”, per parafrasarlo potremmo dire che War Horse ha trovato la disfatta nella gloria. Il suo unico grande difetto.
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