The Iron Lady

24/01/12 - Meryl Streep naviga verso il terzo Oscar nel controverso biopic su Margaret Thatcher, che sembra aver strappato le pagine della Storia.

In uno dei momenti più drammatici della pellicola di Phyllida Lloyd, The Iron Lady, la protagonista pronuncia una frase che recita più o meno così: “Tutto quello che volevo era migliorare il mondo”. Il personaggio in questione è Margaret Thatcher, Primo Ministro conservatore inglese per ben tre volte dal 1979 fino alle sue dimissioni nel 1990. Il suo governo in quel lasso di tempo è stato responsabile di una politica di tagli controproducenti della spesa pubblica, nonché del promulgamento di un’economia liberista che ha portato il suo popolo e l’intero Occidente a un collasso finanziario di cui oggi si sta pagando lo scotto, della morte di centinaia e centinaia di persone nel noto conflitto delle isole Falkland, dell’introduzione della Poll Tax, dell’inasprimento del conflitto con l’IRA, della chiusura delle miniere di carbone nell’Inghilterra del Nord, della disgregazione delle unions, di scioperi ad oltranza che piegarono un Paese. Queste solo alcune delle “cosette” fatte dall’unico premier donna della storia inglese per migliorare, secondo il suo pensiero, il mondo. Ma la pellicola affronta la figura della Thatcher da tutt’altra prospettiva, quella di una signora ormai ottantenne con i primi sintomi del morbo di Alzheimer e ritirata a vita privata, che nei giorni dell’attentato alla metropolitana di Londra, nell’estate del 2005, è impegnata a svuotare gli armadi del defunto marito Denis. Ed è con lui che parla esprimendo tutte le paure, le confusioni e le allucinazioni di una signora anziana e indifesa; così i suoi ricordi del passato, quelli di giovane figlia di un droghiere e successivamente di donna di potere, prendono corpo in un volteggiare frenetico di flashback lunghi e brevi. Una scelta narrativa piuttosto furbesca che in qualche modo libera la regista Lloyd e la sceneggiatrice Abi Morgan dalla “responsabilità” di prendere in maniera netta una posizione sulla scomodità di tale personaggio e sulle sue azioni politiche.

The Iron Lady annulla o altera in questo modo una qualsivoglia memoria storica, che affronta il tatcherismo e il gemello reaganismo in maniera schematica e repentina, dipingendo la sua protagonista attraverso i contorni di un personaggio vittima di una classe politica maschilista e privilegiata. E qui l’agiografia e un femminismo moralista si nascondono dietro una ostentata, ma fasulla, mancata presa di posizione. Così, come nel caposaldo letterario Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, la pellicola affronta il personaggio pubblico nel suo privato e nel momento in cui il corpo e l’intelletto hanno ceduto il passo al decadimento e si fanno i conti con il passato. Quel che viene fuori è il ritratto piuttosto umano di una donna sola che, nonostante il potere acquisito e perso, non ha mai dimenticato la sua estrazione proletaria. Pur con qualche sbavatura, l’operazione è, dal punto di vista tecnico, ineccepibile: nel suo impianto drammatico, nella scelta di dare alla scena una voluta formula teatrale costruita come una parabola shakespeariana, persino intrisa di qualche venatura bergmaniana, con in più un montaggio scomposto che richiama alle confusioni mentali della protagonista malata e una colonna sonora sempre azzeccata ai toni del racconto. Con una Meryl Streep che, dopo le prove sopra le righe e irritanti degli ultimi anni, si contiene sviluppando un personaggio piuttosto trattenuto nella parte da anziana (aiutata dall’ottimo lavoro di make-up, che invece ad esempio rovina le prove di DiCaprio e Armie Hammer nell’altrettanto discusso J. Edgar) e sottilmente ironizzato, ma meno riuscito, negli anni del potere (la parte degli anni giovanili è affidata ad Alexandra Rouch). Messo in scena ad uso e consumo per l’ottenimento di un agognato terzo Oscar. Ma come il governo della “lady di ferro” anche il film pecca per essere thatcherianocentrico a scapito di una mancanza consistente di personaggi secondari credibili e con una loro identità (sprecati Jim Broadbent e l’ottima Olivia Colman, protagonista di Tyrannosaur). L’aspetto politico viene tralasciato e rimane sul fondo, pur prendendo nel suo qualunquismo politico una posizione politicamente netta a favore del personaggio. Ma qui si sta parlando di Margaret Thatcher che passa per una femminista che ha dovuto combattere in un mondo di soli uomini per poter affermare il proprio potere e non di Louise Bryant o Emma Goldman o Alice Paul o semplicemente di una signora borghese al tramonto della sua vita che rammenta con le sue preziose perle il suo glorioso passato. E Phillida Lloyd, classe 1957, e Abi Morgan (suo lo script del buon Shame e dell’ottima miniserie The Hour, in contrasto politico con questo film), classe 1968, sembrano aver strappato le pagine della Storia dimenticando che di glorioso in quel passato c’è stato ben poco.

ERMINIO FISCHETTI

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