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Non è un documentario per neofiti degli Inti-Illimani quello realizzato da Francesco Cordio e Paolo Pagnoncelli, e dedicato a un gruppo musicale storico non solo per il Cile ma anche per l’Italia. È nel nostro Paese che la band di musica andina si rifugiò durante la dittatura di Pinochet, in un esilio che durò ben 15 anni, dal 1973 e al 1988; ed è sempre qui che fu sostenuta, anche economicamente, dal PCI, finendo così per essere associata con un certo impianto culturale ma anche per vendere talmente tante copie da superare in classifica perfino The Wall dei Pink Floyd nell’anno della sua uscita. In patria, tuttavia, quello degli Inti-Illimani è un fenomeno molto più complesso e meno schematizzato: rientrati trionfalmente come portatori della “musica della libertà”, i membri della band hanno vissuto in seguito scissioni e un percorso di rinnovamento che non ha fagocitato il mito, ma anzi lo ha probabilmente rinvigorito.
Girato in parte in Italia e in parte in Cile, il film si focalizza dunque sulla realtà attuale degli Inti-Illimani, o per essere più precisi su quella degli Inti-Illimani “nuevos”, che a differenza del fronte più tradizionalista del gruppo (gli Inti-Illimani Histórico) hanno continuato a inserire giovani e di estrazione molto diversa dalla propria, per lo più accademica, con l’obiettivo di trasmettere anche alle nuove generazioni la musica popolare andina e di farla evolvere di pari passo con i tempi. L’intuizione più interessante del documentario è infatti quella di rompere lo stereotipo riguardo alla band, che non indossa più il poncho e non canta semplicemente la nostalgia per il Paese prigioniero della dittatura, ma porta con sé la ricchezza della memoria senza scordarsi di declinarla al futuro, in un mondo ormai trasfigurato dalla globalizzazione e ipertrofico. Un mondo che ormai ha poco da spartire con gli ideali del Cile di Allende, in cui nacquero gli Inti-Illimani, ma che da essi ha però ancora da imparare.
Nella struttura data al film da Cordio e Pagnoncelli, manca in realtà un po’ di contesto: l’importanza del gruppo nella storia musicale, cilena e non, è più raccontata a voce che illustrata in maniera esaustiva. Ma d’altra parte è chiaro come l’obiettivo dei registi risieda altrove, in particolare nel mostrare, e celebrare, l’attualità di un mito che è sopravvissuto agli strali e al cinismo dell’era post-Guerra Fredda grazie alla propia capacità di emanciparsi dall’ideologia. O per lo meno di emanciparsi dappertutto fuorché in Italia, dove continuano a chiedergli di suonare El pueblo unido, così come è dalle loro canzoni militanti che Daniele Silvestri ha tratto molte note de Il Mio Nemico. Ma il cammeo del cantante italiano serve per lo meno a suggerire come da noi manchi un discorso maturo su quell’epoca storica e sulla sua musica, a cui forse si può pagare tributo ma di cui più difficilmente si riesce a concepire una vera e propria evoluzione.
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