“L’uomo è certamente pazzo: non sa fare un verme e fa dei a dozzine”. Con questa calzante citazione di Montaigne il filmmaker Lech Majewski suggella la presentazione della sua ultima opera, I colori della Passione (solito titolo italiano anodino per il più pregnante originale The Mill and the Cross), costato ben 4 anni di lavoro, dall’ideazione alla laboriosissima postproduzione. Si tratta di un film decisamente sui generis, uno studio tra apologo e film-saggio sul dipinto “La salita al Calvario” del fiammingo cinquecentesco Pieter Bruegel, che ha coinvolto Rutger Hauer, Michael York e Charlotte Rampling in ruoli tra simbolo e demiurgo (il pittore, il mecenate, la Vergine Maria). Artista a tutto tondo, dedito a poesia, regia per teatro e cinema, e arti visive, Majewski conduce un percorso che sopra ogni cosa piega a strumento realmente espressivo le tecnologie cinematografiche più all’avanguardia. Stavolta, infatti, il blue screen e la postproduzione 3D non si riducono a “cinema delle attrazioni”, a fonte di meraviglia del tutto autoreferenziale, bensì concorrono a un’idea di rappresentazione creativa al pari di tutte le altre specificità linguistiche. Tecnologia-strumento, non tecnologia-fine.
Prendendo spunto da un saggio di Michael Francis Gibson sul dipinto di Bruegel, l’autore tenta un discorso sull’atto creativo (la parte più meccanica del film, sottolineata da qualche pleonastica spiegazione per bocca di Rutger Hauer nei panni di Bruegel) e al contempo un’interpretazione dell’opera d’arte tramite immagini cinematografiche. In pratica, un linguaggio artistico a mezzo di lettura di un altro linguaggio artistico. Qualcosa di raramente tentato, che già solo per questo vale un convinto applauso di stima. Per far questo, Majewski conduce lo spettatore letteralmente dentro il dipinto, utilizzando spesso immagini morfizzate tra paesaggi veri (scovati in Polonia, Repubblica Ceca e Nuova Zelanda) e paesaggio ripreso dall’opera di Bruegel. Seguendo e ricreando minime fabule narrative intorno ai personaggi principali del quadro, il film suggerisce anche una riflessione universale sull’intolleranza religiosa e le eterne violenze da essa generate. Majewski si mantiene fedele allo spirito bruegeliano anche nella sovrapposizione di elementi storico-culturali eterogenei a fine simbolico. Come Bruegel ricrea la Passione di Cristo in paesaggi delle Fiandre, dominati da figure a lui contemporanee (i persecutori della Santa Inquisizione spagnola), così Majewski sovrappone i piani narrativi, tra sguardo creatore (Bruegel), cruenta intolleranza cinquecentesca e ricostruzione della stessa Passione. L’assunto, a dire il vero, è più risaputo della forma tramite cui si esprime: Gesù Cristo come prima vittima di repressione religiosa, che riecheggia il Cinquecento, che riecheggia il presente. L’eterno ritorno della storia dell’uomo. Ma è il dato formale a emergere con forza, e a rendere I colori della Passione un alto esempio di intelligente cinema contemporaneo. Si può perdere la vista per mesi sulla perfezione dei pixel anche per un nobile scopo. Non solo per mostrare avatar che danzano nel vuoto.
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