Dalla nostra inviata DARIA POMPONIO
L’evoluzione della specie ha raggiunto un punto di non ritorno: è venuto il momento di volgere lo sguardo indietro e recuperare l’innocenza perduta. Lucido apologo antidarwiniano, Carnage di Roman Polanski, presentato in concorso a Venezia 68 si apre con un’immagine paradossale di “innocente” violenza. Nel parco di Brooklyn, periferia newyorkese un tempo degradata, oggi rifugio ovattato dell’intellighenzia WASP, il litigio tra due bambini si risolve malamente. I ragionevoli genitori dei pargoli si incontrano dunque per trovare una soluzione diplomatica. Dietro però la facciata di una conciliante rispettabilità borghese, si agitano gli spettri di un processo di civilizzazione che si è compiuto, ma sulla base di presupposti errati. Tratto dalla pièce teatrale Il Dio della carneficina di Yasmina Reza (qui co-sceneggiatrice con il regista), il film di Polanski è un vero e proprio stillicidio da camera, per quattro individui pronti a rivelare quanto la loro etica sia improntata a un perbenismo stolido e mal digerito. Unici strumenti a disposizione del quartetto: razionalità, linguaggio e un secchio per vomitare.
A interrompere i convenevoli ci pensa dunque una liberatoria vomitata, che darà la stura ad una montante carneficina verbale. Da sempre a suo agio con una drammaturgia da camera cruda e viscerale (si pensi al film d’esordio, Il coltello nell’acqua, a Repulsion e a La morte e la fanciulla) Roman Polanski dirige un cast di eccellenti mattatori (Jodie Foster, John C. Reilly, Kate Winslet e Christoph Waltz) e realizza con Carnage un serratissimo western da camera. La contrapposizione è quella classica di natura contro cultura e, proprio quest’ultima, è messa sotto accusa, perché ha sostituto la violenza con il diritto (impossibile non pensare alle vicende giudiziarie personali del regista) e ha causato la perdita dell’innocenza dello spirito americano. Assumere tuttavia come modello di riferimento John Wayne, come fanno ad un certo punto i personaggi, non è la via giusta per un agire che possa dirsi morale. L’unico ruolo da incarnare per potersi professare innocenti è infatti solo quello dell’indiano. Ma questa è un’utopia irrealizzabile.
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