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Se verso la fine di un film, il messaggio alla base della pellicola viene ripetuto tre volte in pochi minuti è segno che qualcosa non funziona, che ciò che si doveva dire al pubblico non è stato detto: così, quando il concetto “alla fine anche il nord è bello” diventa il tormentone in conclusione di Benvenuti al Nord, abbiamo la certezza che il seguito che Luca Miniero dà al successone di un anno e mezzo fa fa acqua da più parti. La storia di Benvenuti al Sud qui si ribalta: Mattia, che ha un figlio da poco con Maria, viene lasciato dalla donna perché incapace di crescere. Così si trasferisce a Milano, dall’amico Alberto, per imparare l’efficienza settentrionale; ma anche Alberto ha i suoi problemi familiari e professionali e ambientarsi, per il ragazzo campano, sarà durissima. Il regista, assieme a Fabio Bonifacci, scrive il ribaltamento geografico del primo film: ma anziché seguire lo schema di stereotipi negati prova a riflettere sulle differenze consolidate tra dolce far niente meridionale e feroce produttività settentrionale.
E il film lo fa senza giocare sull’adattamento ambientale di Mattia (con tutto il cuore, chi viene da Castellabate non può trovare bella il quartiere Isola a Milano), ma puntando sul modo in cui i luoghi e i contesti cambiano le persone: così lo stakanovista Alberto deve riscoprire il valore del tempo libero e della famiglia, mentre lo scansafatiche Mattia trova in sé l’attitudine manageriale, tutto per amore delle proprie donne. E tutto, purtroppo, tagliato con l’accetta, senza approfondimenti, confermando in buona sostanza quegli stereotipi che vorrebbero essere riletti in chiave surreale: e per un po’ Miniero ce la fa pure, in quell’ufficio tecnocratico che ricorda le dinamiche fantozziane (molto divertente la riunione aziendale all’inizio) mescola il product placement con la satira, ma poi comincia a incartarsi, a girare a vuoto alla ricerca – sempre più disperata minuto dopo minuto – di un nocciolo forte e succoso alla vicenda. E infatti, la sceneggiatura va spesso fuori tema, ricorrendo in più di un’occasione a soluzioni forzate, facili, tirate via, cercando persino l’azzardato colpo meta-linguistico (la cricca di Mattia crede che il suo cambiamento sia una farsa come quella che loro stessi inscenarono per Alberto nel primo film) che però mostra subito la corda e chiede troppo allo spettatore. E Miniero, che aveva dimostrato un polso gentile e impeccabile, qui si preoccupa solo di far notare il suo occhio spiccatamente filo-meridionale, ribadire a parole ciò che il racconto non comunica e mettere in mostra le grazie di Valentina Lodovini. Gli altri attori, da Claudio Bisio ad Alessandro Siani, vanno avanti di mestiere, ma senza troppo feeling e spiace che Paolo Rossi in versione Marchionne venga utilizzato poco e non troppo bene. Qualcuno penserà comunque a un colpo sicuro al botteghino: ma vista la flessione degli incassi, la qualità potrebbe non essere l’unica delusione.
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