“Ma la donna la donna la donna… oh l’òmo?”. Ci sono film che superano specificità autoriali, personalità artistiche coinvolte, riflessioni su poetica e stile, e quant’altro. Giuseppe Bertolucci, scomparso oggi a soli 65 anni, esordì alla regia di un lungometraggio nel 1977 con Berlinguer ti voglio bene, film a suo modo di underground italiano, nato dopo “Onda libera”, esperienza televisiva condivisa da Roberto Benigni e Carlo Monni, di cui lo stesso Bertolucci fu autore. E sempre Bertolucci scrisse il monologo teatrale Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, a cui Berlinguer ti voglio bene è liberamente ispirato. Ponendosi al racconto di un’Italia praticamente mai raccontata al cinema, quella delle Case del Popolo di provincia, di un sottoproletariato contadino e operaio, vagamente urbanizzato, violentemente escluso dai profili antropologici borghesi e cittadini, Bertolucci dette vita a un’opera leggendaria, che vive tuttora nella memoria di tanti grazie a brani di comicità dirompente, viscerale, di pancia (tra cui il famoso dibattito sui nuovi ruoli sociali di uomo e donna citato in apertura). E che proprio per il suo ancorarsi alla personalità debordante del primo Benigni, tende a far passare in secondo piano i meriti di una regia assolutamente ispirata e “indipendente”, non piegata passivamente alla figura del comico ma in cerca anzi di un linguaggio sottile e in dialogo con l’attore.
Per anni anche presidente della Cineteca di Bologna, in seguito Bertolucci si delineò infatti come uno dei migliori autori dei nostri anni Ottanta, contribuendo in modo sempre discreto e appartato al faticoso perpetuarsi di un cinema d’autore italiano nelle desolazioni del “decennio inesistente”. Dopo l’ottimo Oggetti smarriti (1980) Bertolucci girò uno dei film più belli e significativi sul terrorismo, Segreti segreti (1984), una riflessione traslata, più tendente al lirismo che alla facile socio-psicologia, su radici e disastri di una tragedia nazionale, che sposa un punto di vista esclusivamente femminile, sorretto da un cast straordinario di attrici di varie generazioni (Lina Sastri, Giulia Boschi, Mariangela Melato, Lea Massari, Alida Valli, Rossana Podestà, Stefania Sandrelli). Nel prosieguo della sua carriera Bertolucci ha dato forse meno di quanto poteva, scegliendo talvolta un profilo fin troppo umile (con Troppo sole, 1994, tentò di riproporre la formula autore+comico invadente, ma il connubio artistico con Sabina Guzzanti rimase lontanissimo dai tempi d’oro delle esperienze con Benigni). Tuttavia propose poi altri due film sì imperfetti, ma coraggiosamente sperimentali, Il dolce rumore della vita (1999) e soprattutto L’amore probabilmente (2001), riflessione intorno a verità, menzogna e lavoro dell’attore. Un film freschissimo e distruttivo, che fa a pezzi tradizioni narrative e convinzioni sulla finzione scenica. Non è da trascurare nemmeno l’attività di sceneggiatore, che lo vide al fianco sia di Benigni sia del fratello Bernardo in alcuni dei loro film più importanti: collaborò infatti agli script di Novecento (1976), La luna (1979), Tu mi turbi (1982), Non ci resta che piangere (1984) e Il piccolo diavolo (1988). Sempre coerente, sia come regista sia come sceneggiatore, con un’idea di “cinema oltre il cinema”, che fosse ricerca, sperimentazione, o matrimonio artistico con figure comiche sovversive dei tempi e ritmi cinematografici. Un cinema che non rifiutava nemmeno l’improvvisazione. Un cinema aperto, libero, imperfetto ma orgoglioso di esserlo.