L’intervista a Iannucci è stata realizzata al Torino film festival, dove il film era in concorso. Pubblicata per la prima volta a fine novembre 2017, ve la riproponiamo oggi perchè il film ha visto come miglior commedia agli European Film Awards 2018.
Ridere su pagine atroci del nostro passato più recente è possibile? Da anni il cinema si interroga e The death of Stalin, il nuovo film di Armando Iannucci – che in Italia uscirà nelle sale da 2018 con il titolo Morto Stalin, se ne fa un altro per I wonder pictures – rafforza il concetto che l’operazione è possibile se condotta con intelligenza, capacità di sintesi, sguardo onesto e dissacratorio, con il rispetto necessario per le vittime.
Il regista scozzese (nato da padre napoletano che, come sottolinea scherzosamente, non gli ha insegnato l’italiano) da anni lavora su opere fortemente sarcastiche, irriverenti come Veep – Vice presidente incompetente incentrato sulla satira politica americana (come In the loop su quella britannica). Come afferma anche ai nostri microfoni, aveva voglia di cambiare punto di vista e così, dalla politica americana è passato a quella russa, tornando alla memoria e alla storia di uno dei giorni più importanti dell’ex Unione Sovietiva. Era il 2 marzo 1953, quando uno dei dittatori più feroci del Novecento venne colpito da un’emorragia celebrale. Mentre si cercava un dottore competente – tra i pochi non condannati dal regime – i membri del suo governo iniziarono un’autentica lotta per la sua successione, proprio nella stanza del malato. Iannucci li racconta come uomini che perdono ogni senso della morale e, accecati dalla smania di potere, arriveranno a gesti vili e disumani.
Il film su Joseph Stalin, segretario generale dell’Unione Sovietica, trae ispirazione dalla graphic novel La morte di Stalin di Fabien Nury e Thierry Robins (Mondadori) e inizia da un concerto ascoltato dal dittatore alla radio. Chiama la sala perchè vuole la registrazione dell’esecuzione. Non esiste alcun disco e quindi, preso dal terrore, il direttore di sala richiama i musicisti, richiama parte del pubblico e sostituisce quello ormai lontano con gente presa dalla strada e sostituisce anche il direttore d’orchestra, prelevandolo ancora in pigiama a casa. L’episodio racchude al suo interno (è successo davvero? Vero o verosimile?) tutte le assurdità e ambiguità di una feroce dittatura ed è il motivo scatenante del malore di Stalin perchè la registrazione viene consegnata ma all’interno del disco la pianista inserisce un biglietto carico d’odio. Stalin lo legge, ride e si accascia a terra. Le guardie all’esterno della porta sentono un tonfo ma sono talmente terrorizzate che non osano entrare. Sarà solo una compagna che porta la colazione all’uomo a scoprirlo riverso a terra nella sua pipì e a chiamare i ministri del governo. Davanti al corpo inizia una feroce lotta.
Cast straordinariamente in parte: Steve Buscemi è Khrushchev, Michael Palin è Molotov, Jeffrey Tambor è Malenkov, il vice di Stalin. Olga Kurylenko, amata dal pubblico italiano per La corrispondenza di Tornatore – è la pianista Maria Yudina, mandataria del biglietto a Stalin.
Il film è stato girato nell’Oxfordshire a Londra – dov’è stata ricostruita la Russia degli anni ’50 – e, in parte anche a Mosca e Kiev, soprattutto alcuni esterni. Le ricerche iniziali però si sono svolte tutte al Cremlino perchè, come afferma il regista: “Abbiamo voluto incontrare chi ha vissuto in quel periodo per sapere ciò che nei libri non è presente. Il terrore quotidiano: il dormire vestiti per paura di essere arrestati nella notte, le borse vicino alla porta”.
Il regista, anche sceneggiatore con David Schnedier e Ian Martin, al Torino film festival ha ricevuto un’accoglienza tra le più calorose, con proiezioni del film tutte sold out che confermano il successo già riscosso in patria.
Durante la nostra intervista ha parlato anche di Paolo Sorrentino (li accomuna una certa visione del potere) e della polemica nata in Russia dove, soprattutto quotidiani vicini al governo hanno definito il film: “un’opera di puro disprezzo da parte di estranei che non sanno nulla della nostra storia”.
giovanna barreca