What’s your name di Nour Al-Moujabber, presentato in concorso internazionale al Ca’ Foscari Short film festival, ha una scenografia parlante con un verde che domina, un verde che sa raccontare la vita e che, lentamente viene saturato per raccontare il lento e inesorabile declino nell’esistenza di una donna malata di Alzheimer che, da quella vita, lentamente si allontana.
Colori, inquadrature, movimenti di macchina al servizio della “metafora della morte” che immediatamente proiettano lo spettatore nel dramma per poi permettergli di vivere e sentire la profonda sincerità del rapporto d’amore tra la donna e il figlio, fulcro della narrazione. Tutto il cortometraggio è giocato sui campi controcampi tra i due perché il ragazzo intervista la donna davanti a una video-camera, le chiede di ricordare la sua vita in una sorta di video diario per poi farle rivedere e ascoltare i racconti quando la donna inizia a non averne più memoria, perché li rifaccia suoi.
“Voglio farle ricordare il suo nome” diventa il disperato sogno del ragazzo, per sconfiggere la morte, per tenere con sé la madre. La parete alle spalle della donna è ricca di cornici vuote (forse eccessive), anch’essere metafora dei ricordi svaniti.
Trattandosi del primo cortometraggio libanese realizzato da uno studente della Lebanese University Faculty of Fine Arts and Architecture che, in nove anni, giunge alla selezione finale dello Short, abbiamo chiesto al regista Nour Al-Moujabber, classe 1994, di raccontarci la sua scuola, come ha lavorato all’interno di essa e come il team ha collaborato alla realizzazione del film che è tutto girato in una sola stanza, riuscendo a creare la giusta tensione tra i personaggi e raccontando il percorso di accettazione del giovane che forse, alla fine del corto, davanti a quella stessa telecamera, a quella stessa scenografia, accetta di guardare la bestia nera che lo attanaglia come possibile portatore della stessa malattia.
Nel corto come protagonista è stata coinvolta Randa Kaady, attrice tra le più affermate e apprezzate in Libano.
Grazie per la traduzione a Vittoria Porcelli.
giovanna barreca