Era probabilmente l’ultimo grande del cinema nipponico. Quantomeno l’ultimo, dopo la morte prima di Shoei Imamura e recentemente di Koji Wakamatsu, di quella generazione che ha scosso dalle fondamenta la tradizionale e tradizionalista società giapponese a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. L’ultimo cineasta di sinistra, capace di scardinare poetiche e politiche cinematatografiche nazionali e mondiali con film come Racconto crudele della giovinezza (1959), Notte e nebbia del Giappone (1960), Storia segreta del dopoguerra (1970), e – soprattutto – Ecco l’impero dei sensi (1976) e L’impero della passione (1978), che gli diedero il successo internazionale (critico e di pubblico) e gli permisero in seguito di affrontare produzioni più impegnative come Furyo (1983) e Max amore mio (1986). Malato da tempo, Oshima aveva girato il suo ultimo film nel 1999 Tabù – Gohatto, che si chiudeva – significativamente – con il personaggio interpretato da Takeshi Kitano che tranciava di netto con una spada un albero di ciliegi in fiore, residuo simbolo di vita.