E la Palma d’olio va…

E se assegnassimo quest’anno la Palma d’olio?
Perché, a meno che You Were Never Really Here di Lynne Ramsay, ultimo film in gara a dover essere visionato, non si riveli la gemma nascosta del Festival, si può già tranquillamente dire che la selezione ufficiale di questa Cannes 70 è tra le più scadenti da molti anni a questa  parte.

Nessuno meriterebbe oro o argento. E non perché non si trovi un film in gara capace di mettere d’accordo tutti – in una platea non di soli critici, ma di coloristi, blogger e influencer, tutti accreditati e ciascuno in diritto perciò di esprimersi con un tweet, un post, una pernacchia o un applauso, è un dato piuttosto normale – ma perché non ce n’è stato uno che abbia suscitato vero entusiasmo.

Manca cioè quello che Cannes ha sempre avuto, il vincitore morale. Anche quegli autori che normalmente non sbagliano un colpo, un Haneke o una  Kawase, si sono presentati al festival con opere tutto sommato minori in una filmografia altrove eccelsa.

Difficile spiegare un’annata così. Un’annata che ha fatto parlare di sé soprattutto per la querelle con Netflix – a proposito: i due titoli in gara del gigante dello streaming, Okja e The Meyerowitz Stories, non ci fanno certo strappare i capelli, ma possono tranquillamente dire la loro per il palmarès finale, Almodovar permettendo – e per un’organizzazione ampiamente deficitaria, sia per l’inaccettabile (non ci stancheremo mai di ripeterlo) sistema di colorazione dei badge, iniquo, classista e illogico, che a causa dei nuovi protocolli di sicurezza molto lenti e invasivi che, se da un lato proteggono il Palais, dall’altro generano fuori file chilometriche e del tutto senza controllo dove qualunque malintenzionato può in teoria infilarsi.

Un’annata che volendo promuovere soprattutto la cinematografia nazionale – titoli Netflix a parte, tutti gli altri film in gara avevano soldi francesi – ha finito per metterne in luce un’inaspettata debolezza: film troppo autoreferenziali (come Les fantomes d’Ismael di Desplechin), anacronistici (Rodin di Doillon) o arrivati con un po’ di ritardo (120 battements par minute di Campillo). Incapaci tanto di confrontarsi con il presente – ma la Francia colpita dal terrorismo, dov’è? – quanto di dirsi “globali” in un mondo sempre più parcellizzato, individualista, somma delle sue solitudini.

Maestri che faticano, che non trovano la quadra delle proprie ambizioni (Todd Haynes su tutti). Altri che si ripetono, stancamente (i già citati Haneke e Kawase). E le nuove leve che sembrano già vecchie, prigioniere delle proprie architetture formali dentro cui far muovere sagome di inerte umanità (The Square di Ostlund, The Killing of a Sacred Deer di Lanthimos). Un po’di rabbia politica l’ha portata la cinematografia dell’est, ma con allegorie a volte troppo dozzinali (Jupiter’s Moon di Mondruzco) o smaccate (Loveless di Zvyagintsev) o del tutto gratuite (la lunga parte onirica in A Gentle Creature di Loznitsa). Più vitale un Ozon, che però pasticcia e non poco nel suo omaggio a Hitchcock e De Palma in L’amant double.

O i fratelli Safdie che provano a rifare il cinema underground degli anni’80-’90 con Good Time e che ci consegnano se non altro la novità di un Robert Pattinson de-divizzato e in predicato(perciò?) per un premio. Quello che non riesce ad esempio a Fatih Akin che insegue il thriller greve di denuncia alla Costa Gravas e finisce per regalarci probabilmente il peggior film del concorso, In the Fade, piatto da un punto di vista drammaturgico, scadente sotto il profilo estetico, discutibile sul piano ideologico. Un disastro da cui non si salva nemmeno Diane Kruger.

La Palma dell’ignominia va invece a Le Redoutable di Hazanavicious, che cerca di fare a pezzi il monumento Godard e il cinema engagé che rappresenta con una parodia maligna e fastidiosa, del tutto incapace di contestualizzare il personaggio e di restituirne la portata estetica. Forse il punto più basso del festival.

Chi premierà dunque la giuria capitanata da Pedro Almodovar? Nel migliore dei mondi possibili – che è sempre quello che noi desideriamo, ça va sans dire – la civiltà e la sete di bellezza del cinema della Kawase otterrebbe finalmente il massimo riconoscimento, pure se con il suo film più accessibile e lineare. La nostra Palma d’argento andrebbe a uno tra Zvyagintsev, Ostlund, e Lanthimos. Grand Prix a Campillo, premio speciale della giuria a Ozon o Safdie Bro. Premio alla migliore interpretazione maschile a Dustin Hoffman (The Meyerowitz Stories) o a tutto il cast di 120 Bpm. Tra le donne Ayame Misaki di Radiance della Kawase.

Ovviamente Almodovar & co. premieranno invece l’inutile remake di Sofia Coppola, The Beguiled, con una Nicole Kidman da accademia in pole come migliore attrice. Attenzione anche all’outsider 120 Bpm di Campillo, francese e molto amato dai francesi. Per la regia uno tra Lanthimos e Ostlund. Il russo Zvyagintsev o gli americani Safdie si dovrebbero contendere il Grand Prix. A Dustin Hoffman la Palma del migliore attore, anche per non lasciare a mani vuote Netflix e non farsi parlare dietro.
Tutto questo, ovvio, Lynne Ramsey permettendo.

Gianluca Arnone