Cannes, l’Happy End di Michael Haneke

“Tra Amour e questo film sono passati cinque anni. Inizialmente ero al lavoro su un altro progetto, poi abbandonato. E quindi ho importato alcuni elementi di quello in Happy End. Sono sempre in cerca di nuovi argomenti, e attraversando la vita con attenzione non potevo esimermi dal raccontare la società dei nostri giorni, del nostro modo di vivere in maniera autistica, quasi accecati”.

Michael Haneke torna in concorso a Cannes per provare a vincere la terza Palma d’Oro (dopo quelle ottenute con Il nastro bianco e Amour). Lo fa con Happy End, film che “recupera” due personaggi del suo film precedente, Georges Laurent e sua figlia Anne (Jean-Louis Trintignant e Isabelle Huppert).

 

Entrano in gioco, stavolta, altri membri della famiglia: l’altro figlio Thomas (Mathieu Kassovitz), medico al secondo matrimonio e con una relazione clandestina, il figlio di Anne, Pierre (Franz Rogowski), trentenne problematico che anziché pensare al futuro dell’azienda di famiglia preferisce passare le notti ubriacandosi e combinare guai, l’adolescente Eve (Fantine Harduin), figlia di primo letto di Thomas, ora al seguito del padre a causa di una brutta malattia che ha colpito la mamma. Sempre attaccata al suo smartphone, la ragazzina non perde occasione di ficcanasare anche nel

Ormai costretto su una sedia a rotelle e proiettato all’idea di farla finita prima possibile, Georges ha lasciato la direzione dell’azienda a sua figlia: è lei la capofamiglia ormai, tra l’altro fidanzata con l’avvocato inglese (Toby Jones) chiamato a seguire le sorti della loro azienda di costruzioni.

“Questo film non è poi così diverso dagli altri miei lavori: in fondo mi sono sempre occupato dei comportamenti umani e, proprio perché la nostra vita è radicalmente cambiata negli ultimi 20 anni con il proliferare dei social media, non potevo far finta di niente”, spiega Haneke, riferendosi alle molte immagini nel film riprese attraverso lo smartphone di Eve: “Oggi come oggi siamo sommersi di informazioni, ma il paradosso è che ci rendono sempre più ciechi. Abbiamo l’illusione di saperne di più, ma in realtà non sappiamo niente. Crediamo di essere connessi con il mondo, ma tutte quelle informazioni ci toccano in superficie, non sono la realtà, ma un’illusione”.

Acquistato per l’Italia da Cinema di Valerio De Paolis (uscirà il prossimo autunno), Happy End è un film che immortala il declino e la morte (non solo simbolica) dell’alta borghesia europea, anche contrapponendola all’emergenza migratoria dei nostri giorni: “Io mi preoccupo di fornire agli spettatori alcuni indizi, poi sta a voi il dover interpretare e spiegare il film”, dice ancora il regista, che conclude: “Cerco di raccontare il meno possibile, poi lascio alla testa e al cuore di chi guarda il resto del lavoro”.

Valerio Sammarco