Un regista che interroga il paese nel quale viviamo dando voce ai suoi nuovi cittadini (o quelli che tali dovrebbero essere definiti). Un attore che gioca con il suo ruolo imposto dal copione, interroga la sua coscienza di uomo pubblico, mettendo nell’interpretazione tanto del suo impegno civile e del suo sdegno. In La mia classe, Daniele Gaglianone decide di filmare una classe di migranti provenienti da diverse parti del mondo – dal Marocco alle Filippine, passando per l’ex Unione Sovietica – alle prese con un maestro molto particolare, Valerio Mastandrea. Il regista che proprio due anni fa portò sempre alle Giornate degli autori il lungometraggio di finzione Ruggine, qui filma la classe, i microfoni in campo, se stesso sul set mentre i migranti/attori raccontano storie create nella messa in scena filmica ma allo stesso tempo così appartenenti al loro vissuto di uomini e di donne sradicati dalla terra d’origine. Tanti sono gli interrogativi che durante le lezioni si pongono gli alunni, tanti quelli del maestro e dello spettatore che viene coinvolto direttamente dal primo fotogramma, dal primo sguardo in macchina. Una serie di eventi imprevisti costringono a mostrare anche scene che non avrebbero dovuto far parte del film, travolgendo il copione e sfidando lo spettatore stesso. “Con tutto il girato si potrebbero girare altri tre film” dichiara Mastandrea, ancora molto emozionato nel ricordo dell’esperienza straordinaria vissuta partecipando a questo film-laboratorio e sorridendo di tutte le volte che sono stati gli immigrati a correggere i suoi errori di ortografia alla lavagna.