Il cinema giapponese e quello mondiale perdono una delle figure più importanti, una di quelle poche personalità capaci ancora oggi di esprimere uno sguardo lucido, disincantato, politico e libertario sul presente e sul passato, sulla storia del proprio paese e sull’antropologia dell’essere umano e del suo relazionarsi alla società. Koji Wakamatsu è morto ieri a 76 anni in seguito ai postumi di un incidente stradale. Ha diretto oltre cento film in una carriera lunga quasi cinquant’anni e che avrebbe avuto ancora moltissimo da dire, come testimoniano gli ultimi suoi straordinari film, presentati a tutti i più importanti festival europei, da Cannes a Berlino a Venezia. Basti pensare che quest’anno ha portato al Festival di Cannes 11.25 The Day Mishima Chose His Own Fate, dedicato allo scrittore Yukio Mishima, e alla Mostra del Cinema di Venezia The Millennial Rapture, e che aveva in post-produzione un nuovo titolo, Kaien Hotel Blu.
Sia pur più giovane, Wakamatsu è stato spesso accomunato a Nagisa Oshima (di cui ha prodotto diversi film da L’impero dei sensi a Tabù – Gohatto) e a Shoei Imamura, come figura di cineasta comunista emerso con veemenza alla fine degli anni ’60, radicalmente critico verso la modernizzazione della società giapponese post-atomica e neo-americanizzata, e come personalità registica assolutamente indipendente dalle grandi major giapponesi e, anzi, in conflitto costante con loro.
Rispetto a Oshima e Imamura però, Wakamatsu è una figura decisamente più eccentrica, meno tradizionalmente ascrivibile al cosiddetto cinema d’autore. Dopo aver cominciato nel ’63 con una serie di pinku-eiga (i soft-porno giapponesi che sono stati – e sono ancora – una indispensabile palestra per registi alle prime armi) ed essere passato rapidamente anche ad altri generi, come lo yakuza di Lead Tombstone (sempre nel ’63), già nel ’65 apre una sua casa di produzione, la Wakamatsu Production, e verso la fine del decennio realizza i suoi primi capolavori: Angeli violati (1967), Running in Madness, Dying in Love (1969), Su su due volte vergine (1969) e Violenza senza causa (1969), tutti girati in pochi giorni, spesso ispirati a casi di cronaca nera, in cui emerge il ritratto impietoso del maschilismo atavico della società giapponese.
Uno sguardo politico attraverso gli strumenti della violenza e dell’erotismo: è questa la chiave usata da Wakamatsu, così come da Oshima e da Imamura, però con una furia, un vigore, un’irruenza e un’alta consapevolezza d’artigianato che sono ben differenti dalla cura meticolosa dei suoi due più celebrati colleghi. Una prassi “estrema” che probabilmente oggi lo colloca come il maggior maestro del cinema giapponese attuale, perché per l’appunto fautore di un modo di agire che non si è mai negato la frequentazione delle pratiche basse della macchina cinematografica. Per degli occhi occidentali si potrebbe vedere in Wakamatsu un caso pressoché unico di coniugazione di Brecht e Artaud, cinema didattico e teatro della violenza con cui ribaltare anarchicamente le convenzioni.
Un impegno politico, quello di Wakamatsu, che lo ha portato all’inizio degli anni ’70 ad impegnarsi attivamente nel conflitto israelo-palestinese (erano gli anni in cui Godard, folgorazione giovanile del regista giapponese, girava Ici et ailleurs) realizzando nel ’71, insieme al collega e amico Adachi Masao, il documentario Sekigun-P.F.L.P: Sekai sensô sengen e mostrandolo in maniera autonoma nel suo paese; una radicale critica della politica israeliana che lo portò ad essere dichiarato “persona non grata” negli Stati Uniti.
Con una cinematografia così ricca – e molto difficile da vedere fuori dal Giappone, soprattutto per quel che riguarda i suoi film degli anni ’80 e ’90 – il contributo di Wakamatsu alla storia del cinema potrebbe essere ancora maggiore, se solo si riuscisse a fare un’ampia retrospettiva della sua opera; è solo in anni recenti infatti che i più importanti festival internazionali avevano cominciato a riscoprirlo, se non a scoprirlo ex-novo. Importante in tal senso la selezione nel 2004, operata dal Torino Film Festival (nell’epoca Turigliatto-Vallan-Ghezzi), di Cycle Chronicles, straordinario ritratto di un ragazzo matricida che viaggia attraverso il Giappone in bicicletta, cui seguì nel 2007 l’indispensabile omaggio del festival L’isola del cinema, diretto da Enrico Ghezzi (che negli anni, a Fuori Orario, ha programmato diversi film di Wakamatsu). Quindi sono arrivati i due titoli ospitati dalla Berlinale, United Red Army (2008) e Caterpillar (2010), fino a quest’anno, con Cannes e Venezia. Grazie a queste apparizioni europee, Wakamatsu stava cominciando a diventare un volto noto per un pubblico leggermente più ampio di cinefili, un pubblico altrimenti ristretto a pochi estimatori e conoscitori del cinema nipponico. E ora la conoscenza e la riscoperta di questo autore, vista la tragica e improvvisa morte, appare ancora più necessaria. Per avere un’idea di quanto il suo cinema possa parlare direttamente a uno spettatore occidentale, tra i tanti titoli indimenticabili, basterebbe pensare a un film come United Red Army, dedicato alla vicenda delle Brigate Rosse giapponesi, che con spietatezza ci racconta la follia estrema della lotta armata, una follia ossessiva, sadica e masochistica; cosa che nessuno in Europa – in Italia e in Germania in particolare (si pensi ai mediocri Prima linea e La banda Baader Meinhof) – è riuscito a fare in questi ultimi anni.