Che mostra sarà? Questa è la domanda che si sono posti in tanti e alla quale daremo una risposta tra 10 giorni, quando il festival sarà finito. Sicuramente era importante ricominciare e farlo con uno dei festival più importanti del mondo, crediamo sia un segnale importante per la filiera del cinema e per tutti gli spettatori che ci auguriamo torneranno nella sale cinematografiche proprio per vedere i film di questa 77esima edizione della Mostra Internazionale del cinema di Venezia.
Gel disinfettante ad ogni ingresso sala e controlli capillari ovunque sia di pass che di temperatura; anche in sala stampa viene rispettato il protocollo con personale pronto a richiamare l’attenzione in caso di mascherina non correttamente indossata. Nelle 16 sale allestite per le proiezioni stiamo molto comodi e distanziati ma sicuramente manca un po’ il respiro collettivo di una sala che partecipa alla visione collettiva e dissente o applaude alla fine del film. Tutto ciò che è intorno a noi è diverso quest’anno ma speriamo sia invariata la sostanza, il cuore del festival, vale a dire la qualità filmica delle opere presentate.
Nel nostro primo giorno sicuramente la prima proiezione è stata molto soddisfacente grazie al film della sezione Orizzonti Mila (mele), opera prima del regista greco Christos Nikou (classe 1984) dov’è protagonista Aris, un uomo di mezza età dall’aspetto mite e taciturno che vive in Grecia durante una pandemia globale che causa amnesia in soggetti adulti e anziani. Una volta ricoverato in ospedale, l’uomo entra in un programma di recupero dei ricordi.
Per tutto il film, dominato da umorismo e riflessioni amare, la domanda che ci si pone è: la memoria è un buco nero nel quale è stato seppellito il passato o è in continuo movimento, tormenta il protagonista e le mele del titolo (e quelle che ricerca continuamente Aris) contribuiscono ad alimentarla senza dargli pace? La risposta, se si presta un po’ di attenzione ad alcuni dettagli iniziali, trova presto risposta ma è molto interessante come il regista, con un tocco di leggerezza misto a momenti drammatici porti lo spettatore a vivere con il protagonista. Aris è un uomo che sa toccare con delicatezza ogni oggetto, quasi avesse paura di romperlo e che sembra a suo agio solo in cucina quando inizia a preparare buoni piatti per sé e poi, in un momento molto catartico, per un anziano in fin di vita.
La vicinanza al personaggio è regalata anche dalla scelta del 4:3 che nel film è anche un rimando al formato delle foto scattate con la polaroid che tutti i pazienti del piano di recupero hanno in dotazione per crearsi nuovi ricordi.
Final account è tra i film che segnano, almeno per noi, quest’edizione del festival. Al regista Luke Holland va il merito di aver prima di tutto avuto il coraggio di incontrare i soldati nazisti della SS ancora in vita e confrontarsi con i loro sguardi e in molti casi la loro non vergogna e il loro non pentimento.
Purtroppo Luke Holland è morto quest’estate senza poter essere qui a presentare il suo film più lungo (oltre 10 anni di interviste racchiuse poi in 90 minuti di film) e forse più importante perchè il documentarista inglese, figlio di una rifugiata ebrea originaria di Vienna, ha cercato e messo davanti all’occhio di una telecamera gli autori del male, i tanti tedeschi ancora in vita che avevano fatto parte del Terzo Reich di Hitler (soldati della Wehrmaht, guardiani dei campi di concentramento e donne della gioventù hitleriana). Tutti coloro che sono stati materialmente i colpevoli della morte di oltre 6 milioni di ebrei.
Si è trovato davanti uomini ormai ultra ottantenni che conservano le croci uncinate e i documenti che segnavamo la loro appartenenza a quella macchina di morte, a uomini capaci di affermare: “Non mi sento di dare la colpa a Hitler. Gli ebrei dovevamo mandarli in un altro stato dove avrebbero potuto autogovernarsi”. O ancora: “Gli ebrei non sono i benvenuti nei nostri boschi tedeschi”. Echi di un odio che è ancora presente nella nostra società perchè quello che mostra Holland è nel volto rugoso di uomini e di donne del passato, come in quello i giovani nazisti di oggi. Incontra entrambi perchè la tesi portata avanti nel documentario è che colpevoli non si nasce ma si diventa.
Final account ha una forma e un montaggio classico ma è proprio in questa semplicità, nei primi piani dei suoi soggetti volutamente circondati da foto d’epoca, senza altra collocazione spaziale, alternati a immagini d’epoca, che sta la sua forza. Nelle parole pronunciate con pacatezza davanti alla macchina da presa (e agli occhi del regista) sta l’orrore di pensieri atroci.
“I mostri esistono ma sono troppo pochi per essere pericolosi” recita la didascalia iniziale, tratta da un testo di Primo Levi che continuava affermando: “Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Hòss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent’anni dopo, massacratori in Algeria,come i militari americani di trent’anni dopo, massacratori in Vietnam. Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà”. Nel documentario il resto delle parole di Primo Levi prende forma di immagini nei volti e negli occhi glaciali degli ex soldati: sono gli uomini comuni, i ragazzi che oggi inneggiano a quei concetti razzisti il vero pericolo.
Sempre in Orizzonti Meel Patthar di Ivan Ayr. Il regista indiano nato nel 1983 a Abohar, dopo tre cortometraggi, nel 2018 portò al Lido il suo primo lungometraggio Soni e oggi è tornato con il suo secondo film più introspettivo.
Protagonista del suo nuovo film è Ghalib, un camionista che, dopo una fedeltà lunga anni al suo primo datore di lavoro e poi al figlio tanto da aver raggiunto quasi la Meel patthar (pietra miliare del titolo) con quasi 500.000 chilometri percorsi, ha un malore alla schiena. Dopo l’incidente gli viene chiesto di addestrare un giovane camionista. L’uomo teme che questa richiesta nasconda in realtà il suo vicino licenziamento. Questo fatto, insieme alla richiesta di un risarcimento economico da parte della famiglia della sua sposa, morta suicida qualche mese prima, mettono in discussione tutte le certezze di quest’uomo.
Sul camion, in una sorta di road movie dolente dell’anima, l’uomo ha la possibilità di porsi delle domande e di far i conti con il dolore della perdita della moglie. I colori dominanti sono il grigio e il blu scuro che sembrano avvolgere sempre l’animo dell’uomo. La macchina da presa spesso molto stretta sul volto del protagonista chiuso dentro il suo camion diventa metafora delle paure e del senso di claustrofobia che abita nel cuore di quest’uomo schiacciato dalla sue paure.
Infine di Lacci di Daniele Lucchetti, film d’apertura della Mostra (qui resoconto della conferenza stampa: Lacci o meglio “cappi” apre Venezia77) potete ascoltare la nostra intervista al regista. L’opera del regista di Mio fratello è figlio unico, di Anni felici ci ha lasciato molti dubbi sia sulla forma stilistica scelta con una macchina da presa sempre troppo in movimento e con una quantità di parole davvero eccessiva ma soprattutto sulle scelte dei protagonisti che non sono riusciti a regalare quel senso di coerenza necessario per entrare nella storia della famiglia protagonista. Non c’è stato un buon lavoro tra gli attori che interpretano lo stesso personaggio in vasi diverse della vita. Non volevamo vedere un’inutile verosimiglianza ma sicuramente una maggior coerenza nei gesti, negli atteggiamenti che non cambiano a 20, a 40 o a sessant’anni. Un plauso a Linda Carridi che in pochissime scene riesce a trasmettere tutta la positività di un personaggio che, a differenza degli altri, sceglie chi essere e non essere quello che gli capita, come Vanda accusa Aldo di fare.
La battuta migliore del film: “Lo sai, è difficile soffrire in modo simpatico”.
giovanna barreca