Inconsciamente gli uomini assorbono molto del mondo interiore di chi li genera. Ci sono addirittura sintomatologie che ritornano anche se non c’è nessuna base scientifica che le possa spiegare. Per i figli dei deportati ai campi di concentramento, sopravvissuti a quella barbaria indicibile, resta una ferita profonda perchè i genitori hanno perso totalmente la fiducia nell’umanità. C’è chi non riesce a salire su un treno, chi nasce con una menomazione fisica inspiegabile. Grazie a I figli della Shoah di Beppe Tufarulo, presentato al Festival Internazionale del film di Roma, lo spettatore può scoprire una realtà sconosciuta ai più e un percorso necessario che, attraverso una storia che avviene su due tempi contemporaneamente, passato e futuro, trova la sua crucialità in un presente pieno di vitalità.
Israel Moscati, figlio di deportati, ha scritto il documentario e, oltre ad andare alla ricerca tra Roma, Parigi e Gerusalemme di storie vicine alla sua, entra anche nella scuola romana Vittorio Polacco dove bimbi ebrei preparano dei disegni, dei doni per il suo viaggio, perchè i loro elaborati arrivino ai ‘sopravvissuti di seconda e terza generazione’. “Progettare lavori, dei regali che esprimano un senso di rinascita, di libertà, di continuità della vita” come chiede la maestra. Un dono del futuro perchè la speranza prenda il posto del trauma e del silenzio che stava nei cuori di chi tornò dall’inferno, col senso di colpa per essersi salvato. Un dono dai bambini di una scuola, teatro sessant’anni fa di una rappresaglia nazisti: 115 bambini furono presi e non fecero mai più ritorno a casa.
Il registro espressivo fa ricorso a inquadrature spesso in campo medio, telecamera fissa che mettono a dura prova lo spettatore intento ad ascoltare domande senza risposte e la solitudine nella quale sentono di vivere i protagonisti. Nel film le espressioni di dolore si fanno però anche memoria, testimonianza, coraggio perchè il racconto si sviluppi. Perchè la seconda e la terza generazione si riconcili col silenzio dei nonni e dei bisnonni, perché la ferita si trasformi in altro.
giovanna barreca