Ci sono personalità dell’arte e dello spettacolo che già definire tali è limitante, e che per di più al cinema hanno lasciato poche testimonianze di sé, per molte ragioni o per nessuna in particolare. Per Franca Rame, scomparsa oggi a 83 anni, è facile immaginarsi perché la sua filmografia si limiti a una manciata di titoli tutti realizzati 50 e più anni fa, in cui è difficile rintracciare anche solo un’opera particolarmente memorabile. Per lei e per Dario Fo, compagno di una vita, i contesti espressivi sono stati da sempre e decisamente altri: il teatro, fatto di palcoscenici spesso piccoli o improvvisati, e poi più avanti preziosi esperimenti come il “teatro di fabbrica”, le rappresentazioni nelle case del popolo o nelle scuole. Una costante avanguardia, uno sguardo buttato sul presente sociale e sul futuro espressivo. Teatro contro, arte informativa e performativa, tradizione scavata fino alle radici più archetipiche della rappresentazione e modernità di temi e di messinscena.
Franca Rame e Dario Fo hanno scardinato insieme fino al limite estremo i confini della rappresentazione, forzando le cornici in cui l’arte può esprimersi. L’arte è ovunque, il discorso può compiersi ovunque. Anzi non si compie mai, ma si mette in eterna dialettica con l’ambiente, col pubblico, con tutto ciò che le sta intorno. Per questo probabilmente il cinema non ha mai accolto e valorizzato la loro arte. E anzi fa davvero strano ritrovare Franca Rame ai suoi esordi relegata in ruoli secondari per commediuzze di second’ordine, una più insulsa dell’altra. Film-rivista, parodie facili facili, commedie di costume, a fianco dei comici del tempo come Nino Manfredi, Walter Chiari, Renato Rascel, Lando Buzzanca. Titoli come Rascel Fifì (1956) o Caporale di giornata (1958) appartengono al cinema leggero e scioccherello dei nostri anni Cinquanta, che conserva un proprio valore sociale e anche estetico, ma che davvero poco ha a che fare con l’arte di Franca Rame. O quantomeno trova con essa solo una comunanza nelle radici del teatro popolare italiano (Franca Rame era discendente di un’antichissima famiglia di teatranti legati allo spettacolo di burattini e di marionette).
Molto più curioso e assolutamente da recuperare è invece l’unico vero tentativo di trasferire in ambiente-cinema l’arte della coppia Fo-Rame in Lo svitato (1956) di Carlo Lizzani. I due, novelli sposi da appena due anni, si concessero a una satira sul giornalismo che per vaghe risonanze può ricordare il loro impegno sociale e civile degli anni successivi, ma che si affida soprattutto a una pura e frammentaria comicità fisica a sua volta di radice archetipica. Il film di Lizzani resta un caso isolato, a testimoniare la difficoltà e la ritrosia a confrontarsi con un’arte “rigida” come quella del cinema. Un po’ lo stesso accadde con la TV, da cui la coppia fu cacciata e radiata a metà di una storica edizione di “Canzonissima” nel 1962, a seguito di un loro sketch a sfondo sociale sul mondo del lavoro. Tuttavia, la tensione a un’arte polimorfa e “migrante” si riconfermò poi molti anni dopo proprio dallo stesso palcoscenico Rai del sabato sera. In una puntata del suo “Fantastico”, nel 1988 Adriano Celentano invitò Franca Rame a recitare uno dei suoi monologhi più intensi e apprezzati, “Lo stupro”, un grido lanciato contro la violenza alle donne dal tempio della tradizione televisiva. In quell’occasione la Rame spinse la televisione italiana verso vertici di espressività praticamente mai più contemplati né dalla Rai né da altri, uno dei momenti più alti di tutta la storia della TV nazionale. Il testo era ispirato alla tragica esperienza vissuta da Franca Rame nel 1973, rapita e violentata da un gruppo di estrema destra. La sua arte colpiva duro contro l’omologazione e ogni forma di fascismo. E l’omologazione, intrinsecamente violenta, prendeva le sue aberranti contromisure.
MASSIMILIANO SCHIAVONI