Ferrario: la sconfitta ci insegna la natura del nostro popolo – #TFF35

Cento anni di Davide Ferrario, presentato in Festa Mobile e in sala dal 4 dicembre, ripercorre la nostra storia dal 1917 con la disfatta di Caporetto, fino ad oggi con la grave crisi demografica. Un viaggio nella memoria e nella capacità di risollevarsi di un intero popolo dalle situazioni più difficili. La nostra intervista in esclusiva al regista.
Intervista a Davide Ferrario a cura di Giovanna Barreca

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“Nella sconfitta, come italiani, sappiamo leggere meglio come siamo fatti” e nella disfatta di Caporetto del 1917, anche nel linguaggio comune, riconosciamo il simbolo di ogni tragica sconfitta. Partendo da questo punto fermo, è nato Cento anni di Davide Ferrario, soggetto di Giorgio Mastrorocco, presentato in anteprima mondiale al Torino Film Festival, in Festa Mobile e in sala dal 4 dicembre per Lab80.
Non si tratta di un documentario storico legato alla commemorazione dei soldati morti durante la Prima Guerra Mondiale ma è l’ultimo capitolo – dopo Piazza Garibaldi e La zuppa del demonio – che chiude la trilogia sulla storia d’Italia, alla quale l’autore ha lavorato per anni per capire meglio la nostra storia e soprattutto l’identità del popolo italiano. “Sappiamo reagire, nelle sconfitte troviamo il modo di mobilitare le energie migliori” precisa l’autore ai nostri microfoni.
Cento anni è un viaggio che arriva fino ai giorni nostri, dove viviamo una sorta di Caporetto demografica con lo spopolamento di diverse aree del centro e soprattutto del sud della Penisola, forse perchè la crisi non ci spinge più a mobilitarci come fecero le grandi sconfitte del passato ?
Il film è diviso in quattro capitoli che si differenziano anche per un uso diverso del linguaggio filmico. Nel primo – attraverso le memorie dei profughi, dei prigionieri e degli orfani (i “figli del nemici” che nessun soldato di ritorno a casa voleva) della prima Caporetto del 1917 – lo spettatore può riascoltare le voci di chi dovette affrontare conseguenze che, ai loro occhi, apparivano, a volte, più dure della morte.
Nel secondo, legato alla Resistenza, Ferrario usa come base narrativa il testo L’eco di uno sparo di Massimo Zamboni che riporta alla memoria l’uccisione del padre da parte di due partigiani, su immmagini di filmini familiari dell’epoca.
La terza parte – legata alla strage fascista di Piazza della Loggia a Brescia – lo stesso regista la definisce: “teste parlanti perchè mi sono fidato di chi c’era e dei discendenti delle vittime. Ho lavorato su come la memoria di quell’episodio abbia creato una coscienza civile”. Ci sono le testimonianze molto forti anche dei nuovi italiani migranti che la città la vivono e la sentono come loro.
Franco Arminio, poeta e scrittore, da anni attento studioso del fenomeno dello spopolamento nelle regioni del Sud d’Italia è la guida del quarto capitolo, un viaggio nel viaggio, in una terra che: “non ha bisogno di crescita, di sviluppo ma di cura”.

E se nei primi tre capitoli, la domanda alla quale rispondono le parole e le immagini è a che cosa serve la memoria del morti, nell’ultima l’interrogativo si capovolge: cosa servono i vivi?

Nella nostra intervista Davide Ferrario ci racconta il perchè della struttura data al documentario, dei diversi stili adottati, della luce e, visto che lo abbiamo incontrato nella sala dedicata a Garibaldi al Museo del Risorgimento, l’importanza che hanno i musei e lo studio della storia.

giovanna barreca