Un maestro del noir, riscoperto negli ultimi dieci anni grazie anche all’idolatria di Quentin Tarantino per il suo cinema: Fernando Di Leo, ricordato al Festival del Cinema Europeo di Lecce tramite un’ampia retrospettiva a cura di Luca Pallanch e Domenico Monetti e un documentario ancora in fieri, Fernando Di Leo: un pugliese a Roma, come ha dichiarato la sua autrice Deborah M. Farina al termine della proiezione. Di Leo, l’autore di indimenticabili noir all’italiana anni Settanta come Milano calibro 9, Il boss, La mala ordina, era infatti nato a San Ferdinando di Puglia (FG), e proprio la Puglia gli restituisce adesso, tramite il Festival di Lecce, un ricordo affettuoso per la sua arte seriamente valutata molto in ritardo. “Di Leo ha fatto anche film bruttissimi” dice Marco Giusti, intervenuto alla presentazione del documentario, “come Rose rosse per il Fuhrer e Amarsi male, ma è un tratto comune agli autori di cinema di genere. Possono fare film terribili prima di imboccare la strada giusta”. Il documentario e il dibattito a seguire hanno messo in luce le difficoltà e incomprensioni affrontate da Di Leo, in famiglia come nell’industria.
Da sempre animato dall’ambizione di essere considerato nella serie A del cinema italiano, si è ritirato presto a vita privata, per vedere poi apprezzati i suoi film sul finire dei suoi giorni. “Mi rammarica solo non aver visto questo apprezzamento quando era ancora in vita”, dice Barbara Bouchet, icona del cinema di Di Leo, apparsa nel leggendario Milano calibro 9 e in Diamanti sporchi di sangue. Intanto il lavoro filologico sulla sua opera continua, e si scopre ad esempio di un progetto a tematica gay, Uno di quelli, che doveva prevedere ancora la Bouchet nel cast. “Poteva dare di più al cinema, questo sì” suggella Marco Giusti. Forse l’industria e la critica l’hanno lentamente scoraggiato.
MASSIMILIANO SCHIAVONI