Nel 1973 gli internati del manicomio di Trieste costruirono un cavallo di cartapesta e legno e lo pitturarono di azzurro. Un cavallo metafora della necessità dell’incontro perché la loro condizione cambiasse. Franco Basaglia era il direttore della struttura e divenne, com’è noto, il megafono di tutte le voci di chi voleva uscire da questi manicomi lager. La riforma della legge 180 passò nel 1978 e le strutture piano piano vennero chiuse. Oggi un suo allievo, Peppe Dell’acqua, porta avanti con lo stesso strumento/simbolo la battaglia perché nel 2014 gli ospedali psichiatrici giudiziari italiani (anch’esse strutture inadeguate) vengano chiusi definitivamente e sostituiti con centri di igiene mentale aperti ventiquattrore su ventiquattro.
L’articolo 32 della Costituzione Italiana stabilisce: “…la legge non può, in nessun caso, violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La situazione incostituzionale dei manicomi criminali non è nota a molti e per questo un gruppo di volontari e il dottor Peppe Dell’acqua hanno iniziato una campagna di sensibilizzazione in 16 città italiane (6 delle quali ospitano le strutture). In prima fila Marco Cavallo, il cavallo di cartapesta. Tale avventura è narrata nel doc Il viaggio di Marco Cavallo di Erika Rossi e Giuseppe Tedeschi, presentato al Torino Film Festival, e l’azzurro cielo del corpo del cavallo simbolo della lotta è diventato visibile e noto a molte più persone. Al cinema Massimo 2 hanno partecipato in centinaia alla visione e al dibattito appassionato che ne è seguito.
Oggi le strutture, come scritto, sono sei e sicuramente per il pubblico entrare in quella di Aversa e vedere alte barre alle finestre e che, come dice la regista Rossi, “l’idea della cura non si vedeva da nessuna parte” è lo choc più forte di un’opera che usa anche la chiave ironica e le diverse voci incontrate durante il lungo viaggio per portare il pubblico ad analizzare la situazione italiana. Significativo vedere l’animale di cartapesta in un’aula universitaria, tra la gente delle strade di Napoli come di Genova. Oltre a mettere in luce l’anacronismo delle strutture e di un metodo di cura non più valido, viene sottolineato come il problema sia legato anche ad una giurisprudenza datata e aberrante che stabilisce l’entrata del malato nell’opg ma non ne stabilisce la data di uscita. Queste persone sono private di libertà e di speranza.
Una medaglia della Presidenza della Repubblica, 4000 chilometri percorsi, 16 città, migliaia di incontri tra studenti, internati, operatori, volontari, cittadini comuni, un numero di malati internati che è diminuito dall’inizio del viaggio ma tali strutture sono ancora aperte. E quindi la battagia di StopOPG (appello firmato da oltre 40 associazioni) continua. Per maggiori informazioni e per partecipare:http://www.stopopg.it/
giovanna barreca