Esiste da sempre un pregiudizio un po’ ottuso che nel definire come “teatrali” opere cinematografiche devote alle unità aristoteliche, intende sminuirne le qualità artistiche. Ma molto probabilmente si tratta già di preconcetti datati o in via di definitiva dissoluzione, se si pensa che solo nell’attuale stagione cinematografica William Friedkin con Killer Joe e Bernardo Bertolucci con Io e te hanno aggiunto altri due mirabili tasselli alla loro filmografia. È il turno ora di Roman Polanski – tutto sommato un habitué del kammerspiel declinato nelle sue più differenti forme, da Il coltello nell’acqua a La morte e la fanciulla, da Luna di fiele a L’inquilino del terzo piano a Repulsion – che dopo aver portato sul grande schermo con Carnage il testo teatrale di Yasmina Reza sposa ora l’omonima pièce di David Ives con Venus in Furs, presentato in concorso al Festival di Cannes. Si tratta di un matrimonio oltremodo felice, dal momento che il testo calza a pennello alla poetica del regista ponendo in luce le complesse dinamiche sadomasochistiche che si dipanano nel corso dell’incontro tra un’attrice e un regista teatrale e che costituiscono in fondo il fondamento di entrambi i mestieri.
Protagonista è una strepitosa Emmanuelle Seigner – mai così brava e convincente – nei panni di Vanda, un’interprete teatrale dall’abbigliamento e dai modi rozzi e volgari, che si presenta con notevole ritardo al provino per un ruolo da protagonista in un adattamento di Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch. L’inizialmente riottoso regista dello spettacolo Thomas (il come usuale ottimo Mathieu Amalric) accetterà infine di provinarla e resterà coinvolto in un complesso gioco di dominio e sottomissione che, come il teatro stesso, potrebbe non avere mai fine. Diretto come un adrenalinico inseguimento tra due corpi destinati continuamente a collidere, Venus in Fur (titolo originale La Venùs a la Fourrure) si struttura dal punto di vista narrativo come un vero e proprio saggio sul lavoro teatrale. La sceneggiatura, ricca nei dialoghi di iperboli di grande sagacia, segue infatti le varie fasi “classiche” della messinscena di uno spettacolo: la lettura del testo, la psicoanalisi del personaggio e infine l’inevitabile braccio di ferro tra l’attrice e il suo regista. Vanda e Thomas sono in realtà due archetipi che al di fuori del teatro in cui li sorprendiamo – siamo infatti posizionati come avviene spesso nei film di Polanski nello scomodo ma gustoso ruolo di indiscreti voyeur – potrebbero anche non esistere affatto. Se si eccettuano le telefonate di Thomas alla moglie, utili a ribadire che la lotta qui è anche di classe – impossibile resistere qui alla tentazione di citare uno dei momenti più esilaranti del film, con il personaggio di Vanda intento ad indovinare il nome del cane di Thomas: “Il vostro cane avrà un nome da intellettuale. Bourdieu?”“ …Derrida” – tutto si svolge sul ring del palcoscenico con qualche rapida incursione nella platea.
Nel loro teatro di guerra questi due personaggi archetipici non hanno dunque molte alternative, essi possono essere solo dominatori o dominati è da questo che nasce ed è in questo che si esprime l’essenza della loro arte. Perché in fondo senza sadomasochismo non c’è teatro e senza feticismo non esiste sul palcoscenico alcun tipo di ruolo.
Ma in questa lotta per ottenere il governo della scena il vero e indiscusso vincitore in Venus in Fur è proprio l’ottantenne Polanski che non a caso sceglie un interprete estremamente somigliante a sé stesso da giovane, lo mette alla berlina e sotto pressione, ma il suo è solo un gioco di specchi per ricondurre nelle sue mani o, meglio nel suo sguardo, il dominio assoluto della scena.
DARIA POMPONIO