Cineasta poliedrico ed eccentrico – come spesso accade all’interno dell’ampia e stratificata cinematografia giapponese – Sion Sono è stato tra i pochi autori nipponici a farsi carico, con tutti i rischi che ciò comporta, di raccontare il disastro di Fukushima, con un film splendido e veemente come Himizu, presentato lo scorso anno alla Mostra del Cinema di Venezia, a poco più di cinque mesi dal terremoto e dallo tsunami che misero in ginocchio il paese. Ora, Sono – assuntosi l’impegno di continuare a raccontare le devastanti conseguenze del nucleare – torna sull’argomento con The Land of Hope, presentato nella sezione Rapporto Confidenziale alla trentesima edizione del Torino Film Festival, immaginando che, dopo Fukushima (a nord del paese), in seguito a un terremoto, un’altra centrale, stavolta a sud, nei pressi di Nagashima, metta a rischio la salute della terra e dei suoi abitanti.
Là dove, in Himizu, il racconto era pervaso dall’urgenza e dalla violenza rapsodica, qui la narrazione si fa necessariamente più riflessiva e organica, tanto che The Land of Hope è a tutti gli effetti un film corale, con una complessa strutturazione in episodi e personaggi, tutti legati a un unico iniziale heimat: un piccolo villaggio nei pressi della centrale nucleare di Nagashima, la cui esplosione – in seguito a un terremoto – spinge i protagonisti a decidere se fuggire o restare. I vari détour cui i personaggi sono costretti permettono a Sono di comporre un quadro d’insieme che parla a tutto il Giappone e mostra come la “terra della speranza” sia ormai una waste land, una terra divelta, annichilita e distrutta dalla radioattività dove, tra nord e sud, non vi è più via di fuga possibile. Ma, recuperando una tematica che è tipica di Sono – non solo in Himizu, quanto anche in altri suoi film pre-Fukushima come ad esempio Love Exposure -, resta una speranza: l’uomo e i suoi affetti.
Asciugato stilisticamente, più contemplativo che in passato nei toni e nel ritmo, il cinema di Sion Sono sembra guardare con The Land of Hope, forse per la prima volta, a un maestro come Ozu, anche per via di una forte credenza nella bontà innata del singolo individuo. A dircelo è – registicamente – la figura retorica dell’inquadratura “tatami”, ovvero bassa e con macchina fissa, con cui Sono, così come faceva Ozu, riprende i suoi protagonisti mentre mangiano inginocchiati delegando a questi momenti le decisioni decisive sul loro destino. Si tratta di un sorprendente approdo verso la classicità che, lontano dal poter essere tacciato di maniera, si integra coerentemente con una costruzione del racconto realistica e sommessa, quanto desolante e trasparente. The Land of Hope è un film di una chiarezza simbolica adamantina, in cui persino la stessa idea di partenza dal coté fantascientifico – ipotizzare un futuro prossimo in cui un’altra centrale nucleare possa mettere a rischio la popolazione – viene coniugata nei termini di una partecipazione sincera e dolorosa ai destini dei personaggi, nella consapevolezza che in gioco vi è, con una limpidità disarmante del discorso, il destino stesso del Giappone. E, probabilmente, l’immagine di due dei protagonisti che attraversano i luoghi del disastro, immedesimandosi in un gioco infantile per cui percorrono passo dopo passo ogni centimetro di questa terra distrutta, è l’immagine assoluta e abbacinante di un paese che deve voler riscoprire il valore essenziale della terra che calpesta.