The Immigrant

La grande illusione del sogno americano per una pellicola d'autore interessata più alla sua potente metafora che al canovaccio usuale delle pellicole sull'immigrazione.

La maggiore forza del cinema americano risiede nel sapersi continuamente rinnovare pur restando sempre lo stesso. A prescindere dalla codificazione in generi, questo ricchissimo sistema cinematografico serba infatti in ogni suo prodotto una confortante riconoscibilità e un’universalità che non necessariamente calpestano la personalità dell’autore, sempre in grado, come certa critica francese ci ha insegnato, di nascondersi nei dettagli. Tra i fautori più convinti di questa politica c’è senz’altro James Gray, uno dei registi e sceneggiatori più talentuosi della sua generazione che ora con The Immigrant, presentato in concorso all 66/esimo Festival di Cannes, ci offre la sua personalissima rilettura del kolossal sull’immigrazione.

Poco interessato ad omaggiare la vasta filmografia sull’argomento che va da Il ribelle dell’Anatolia di Elia Kazan – un autore che, insieme forse anche a Sydney Lumet costituisce un vero e proprio faro nella poetica di Gray – a pellicole più mainstream come Gangs of New York di Martin Scorsese, il regista di Two Lovers scardina programmaticamente tutte le regole del genere, tradendo le aspettative sui cliché previsti dallo spettatore più consapevole, per immergerlo in un film dal forte portato metaforico prima che storico. Protagonista di The Immigrant è Marion Cotillard, nei panni di Ewa un’immigrata polacca sbarcata con la sorella tossicolante a Ellis Island. Qui, vessata moralmente e sessualmente, viene infine bloccata dall’ufficio immigrazione e avviata verso il rimpatrio. Ad aiutarla ad entrare clandestinamente nel paese sarà Bruno Weiss (Joaquin Phoenix) che riconosce subito nella bellezza della donna la possibilità di arricchirsi iniziandola alla prostituzione. Con la sorella in quarantena, Ewa è pronta a tutto o quasi pur di rimediare i soldi che, ungendo i meccanismi corrotti del sistema, possono restituirle la libertà. Ma Ewa non ha intenzione alcuna di rinunciare ai suoi sani principi morali. Si innescherà così tra Ewa e Bruno un gioco perverso fatto di dominio e sottomissione, una lotta serrata che coinvolgerà due personaggi diversissimi tra loro e forse destinati a mai incontrarsi, ma che li vede accomunati dal medesimo obiettivo: il denaro. Perché in fondo entrambi sono o diventeranno consapevoli di una verità largamente condivisa: non si produce fatturato senza sfruttamento.

Rigorosissimo nelle scelte registiche, The Immigrant tiene la città di New York sempre ai margini, rifuggendo la tentazione del grande affresco storico per ingabbiare i personaggi in sordidi interni dove a prendere il sopravvento è la gelida metafora della disillusione. Con un ritmo incalzante quasi da poliziesco urbano (genere abituale di Gray) The Immigrant mira infatti a mettere in scena la vera essenza del sogno americano, ovvero la sua natura profondamente corrotta e corruttrice. Il suo strumento è la seduzione, il suo obiettivo la sopraffazione. Fin dal suo arrivo a Ellis Island Ewa viene infatti trattata come una sorta di cucciolo da proteggere e rieducare, piegandone l’indole e plagiandone la personalità per imporle l’amaro incontro con il tradimento, il sesso a pagamento, il ladrocinio e l’omicidio, strumenti che costrituiscono il viatico più funzionale alla sua integrazione. Interpretato, narrato e diretto con grande maestria, The Immigrant è uno di quei film capaci di commuovere non attraverso la sua storia lacrimevole, bensì attraverso l’inventiva, quella sì potente e toccante, dello stile registico. Animato da un piacere cinefilo quasi stordente il film di Gray trova poi il suo degno epilogo in un’inquadratura geniale e potente che lascia il segno.

DARIA POMPONIO