Chi aveva apprezzato Pietà, forse si troverà completamente spiazzato di fronte a un oggetto curioso come Moebius, nuovo film del regista coreano Kim Ki-duk fuori concorso qui al Lido. Solo un anno fa Kim Ki-duk vinceva il Leone d’Oro proprio con Pietà, un film dolente e disperato, persino troppo serioso e schematico nel tratteggiare i destini dei suoi personaggi. In modo completamente diverso, invece, si muove Moebius, divertita e divertente commedia sadica che mette alla berlina un nucleo familiare piccolo-borghese composto da un marito fedifrago, una moglie gelosa e violenta e un figlio adolescente che si ritrova, suo malgrado, ad avere la peggio. Giocato con un certo gusto per l’oscenità e lo sberleffo, infatti, Moebius ha come azione scatenante e dirompente l’evirazione che il ragazzo subisce ai danni della madre.
La donna, colta da un improvviso e folle raptus, non riesce a vendicarsi del marito di cui ha scoperto il tradimento e perciò dà sfogo alle sue pulsioni primarie scegliendo proprio il figlio come vittima. Da lì in poi, il ragazzo dovrà fronteggiare una serie di situazioni sempre più imbarazzanti, finché suo padre si convincerà che in fin dei conti tocca a lui sacrificarsi a sua volta per permettere al figlio di vivere una vita normale. Ma altri avvenimenti inaspettati e sempre più scandalosi tempesteranno la vita sessuale dei due…
Forse troppo spesso descritto come un cineasta monocorde e ossessivo, ripiegato nel suo mondo violento e crudele (caratteristiche che si riscontravano con ogni evidenza in Pietà), Kim Ki-duk con Moebius ci ricorda che il suo orizzonte cinematografico, pur segnato da un oscuro e umorale fondo di radicale pessimismo, è tutt’altro che limitato e che il melodramma non è l’unica corda a sua disposizione.
Certo, Moebius è pur sempre un divertissement low-budget e sbrigativo, un raccontino esile e simbolicamente sin troppo chiaro ed elementare, un film grottesco e dai tratti surrealisti che resta lontano mille anni luce da una qualsiasi opera di un Luis Buñuel (ma, per restare in ambito orientale, sembrano molto distanti e poco avvicinabili anche gli anarchici e liberatori sadismi di registi come Sion Sono e Takashi Miike). Eppure, non si può fare a meno di considerare questo Moebius (il cui titolo deriva per l’appunto da un legame ossessivo e ritornante, fisico e simbolico, che divide e unisce la famiglia in questione) come un atto liberatorio e catartico, come la conferma di un autore che, dopo il disastroso incartarsi su se stesso (L’arco, Time, Soffio, ecc.) e dopo la morte-rinascita dell’autobiografismo estremo e disperato di Arirang, ha finalmente ritrovato la voglia e la gioia di fare cinema.
Alessandro Aniballi per Movieplayer.it