La cinematografia coreana è assai più varia e vitale di quanto si possa immaginare. Noto nel Vecchio Continente soprattutto per i suoi autori, pluripremiati nei festival internazionali (Kim Ki-duk, Im Sang-soo e Park Chan-wook, per citarne alcuni), il cinema della Corea del Sud ogni anno scodella terribili drammi sul turbolento sistema scolare, altrettante commedie con innamorati dai cuori palpitanti e notevoli pellicole d’azione. Unica vetrina italiana per gettare uno sguardo su questa produzione è il Far East Film Festival di Udine, che da ben quattordici anni seleziona il meglio del cinema popolare dell’estremo oriente. Tra le sorprese dell’ultima annata, si segnala senz’altro Moby Dick di Park In-Jae, thriller giornalistico denso di colpi di scena e di lucide disamine della realtà politico-sociale del paese.
Ambientato nel 1994, quando la democrazia muoveva i primi passi nel paese, Moby Dick restituisce in pieno il clima da guerra fredda che si respirava allora (come oggi) utilizzando in maniera calzante gli stilemi classici del thriller sulla paranoia del complotto, ma ponendosi anche il fermo obiettivo di restituire uno sguardo sulla realtà che proviene “dal basso” e ben restituisce lo stato di tensione perenne in cui vive, ancora adesso, la popolazione.
Brillante e ingegnosa metafora politica che si snocciola sotto gli occhi dello spettatore secondo i codici dell’indagine giornalistica, Moby Dick racconta la storia del reporter Lee Bang-Woo (Hwang Jeong-min) che, insieme alla sua task force (composta di un’esperta informatica e un collega giornalista) cerca di scoprire chi sono i veri mandanti di un’esplosione che ha causato la caduta di un ponte a Seoul, provocando la morte di due persone e il coma (forse irreversibile) di una terza. Convinto che si tratti di un crimine ordito da un’organizzazione segreta che vuole destabilizzare la nazione, facendo ricadere le colpe sui vicini nordcoreani, il nostro protagonista, grazie alle soffiate di un misterioso informatore, si imbarca dunque in un’avventura foriera di scoperte inquietanti e altrettanti pericoli. Dosando con sapienza e spiccato senso del ritmo colpi di scena, sequenze d’azione e momenti più distensivi volti a presentarci in maniera approfondita i personaggi, il regista Park In-Jae ci trascina in un’indagine serratissima e avvincente, capitanata da un leader (il bravissimo Hwang Jeong-min, già visto in La moglie dell’avvocato e A Bittersweet Life) carismatico e ben determinato a scoprire la verità. Park In-Jae non dimentica poi di lasciare il giusto spazio agli altri interpreti, virando verso il melò realistico con la storia del collega maschio (Kim Sang-ho) e sulla comicità (esilarante la scena dell’intercettazione nel pub) con il personaggio femminile (Kim Min-hie). Si configura dunque in Moby Dick una coralità insolita per il genere dell’action-thriller dove – come ci ha abituati Hollywood – l’eroe, specie se muscolare, ruba la scena ai suoi adiuvanti per provvedere all’usuale esaltazione del self made man americano. Qui invece il protagonista, come l’Acab del romanzo di Melville a cui fa riferimento il titolo del film, si ritrova continuamente a scontrarsi contro il muro di gomma delle oscure trame politiche di un governo ombra, come ben esemplificano le brevi sequenze subacquee che lo vedono immerso nell’Oceano; e, forte della propria caparbietà, è ben deciso a raggiungere il fondo e catturare la sua balena. Alla sua prima, riuscita prova nel lungometraggio, Park In-Jae ci regala dunque una bella, duplice lezione: di giornalismo e di cinema.