Hans Kohlhase fu un personaggio storico – per quanto vi siano delle controversie in atto sulla sua reale esistenza – che visse nella Germania della prima metà del Sedicesimo Secolo: in seguito a un torto subito da un nobile, il mercante che la tradizione vuole nativo di Tempelberg mise a ferro e fuoco la Sassonia per alcuni anni, rivendicando una giustizia che la sua epoca non avrebbe mai potuto concedergli. Finì dunque giustiziato, subendo il “supplizio della ruota” a Berlino. Probabilmente nessuno ne avrebbe comunque mai ricordato le gesta se queste non avessero fornito tre secoli dopo lo spunto a Heinrich von Kleist per la sua novella Michael Kohlhaas: tra gli scritti più moderni dell’autore tedesco, Michael Kohlhaas indaga un’ossessiva e impossibile ricerca della giustizia terrena, destinata a portare con sé soprattutto distruzione e morte.
Nel 1969 il Festival di Cannes accolse il film di Volker Schlöndorff Michael Kohlhaas – der Rebell (ribattezzato in inglese Man on Horseback), in cui la novella di von Kleist era riletta in un combattivo spirito non digiuno delle temperie sessantottine: un’opera che si è persa nelle nebbie del tempo, e non è riconosciuta neanche tra i più stretti fan del cineasta tedesco. Alla luce di quanto accaduto al termine della proiezione stampa di Michael Kohlhaas durante le giornate della sessantaseiesima edizione del Festival di Cannes, è facile predire lo stesso destino anche al nuovo adattamento dell’opera di von Kleist, diretto da Arnaud des Pallières e inserito addirittura nella corsa alla Palma d’Oro.
Il quarto lungometraggio di des Pallières, al di là dei numerosi dubbi lasciati dalle scelte estetiche e narrative, appare come la più classica delle occasioni sprecate. Un senso di inadeguatezza e di inutilità accentuato dall’importanza del testo di riferimento e da un cast che raccoglieva alcuni dei nomi più interessanti del panorama attoriale europeo, da Mads Mikkelsen a Bruno Ganz, passando per Denis Lavant e Sergi López: proprio la presenza in scena di quest’ultimo, ridotta a una sorta di cameo privo di spessore, palesa con una certa precisione lo stato confusionario in cui si agita la storia del mercante Michael, deciso a combattere contro un barone, e in seguito contro lo stesso principato, per ottenere giustizia dopo l’assassinio della moglie e il furto di due dei suoi migliori cavalli.
Il regista transalpino, già autore di Drancy Avenir (1997), Adieu (2003) e Parc (2008), si lascia prendere la mano dal demone dell’ambizione, e cerca di trasformare Michael Kohlhaas in un dramma morale dalle pretese quasi herzogiane, fallendo miseramente nel tentativo. Se si esclude qualche interessante intuizione nella messa in scena della natura che circonda e avvolge la storia, l’intero film collassa su se stesso, incapace di intraprendere una qualsiasi direzione e continuamente alla ricerca di una dimensione aulica che poco si addice alla messa in scena di des Pallières. Uno degli esempi migliori di una regia squilibrata e imprecisa è forse rintracciabile nell’ottimo monologo in cui si lancia il sempre ammirabile Denis Lavant: dopo aver intuito le potenzialità dialettiche di un attore spesso sfruttato per la sua presenza scenica, des Pallières abbandona il personaggio al suo destino, svilendone di fatto il ruolo all’interno del già inceppato meccanismo narrativo. Una sorte che tocca più o meno tutti i protagonisti di questa fosca vicenda di orgoglio personale e vendetta irrisolvibile, e che trascina Michael Kohlhaas in una zona morta, vischiosa palude di bitume nella quale è impossibile non sprofondare.
Vuoto e solo a tratti elegante, Michael Kohlhaas rappresenta il nadir artistico della Croisette.
RAFFAELE MEALE