L’image manquante

Il regista cambogiano Rithy Panh torna a raccontare la dittatura di Pol Pot e la tragedia della propria famiglia sterminata dai Khmer Rossi. Vincitore della sezione Un certain regard alla 66esima edizione del Festival di Cannes.

L’immagine che manca è l’unica che ha ancora un senso a essere raccontata, l’unica che può ancora scardinare gli asfittici incunaboli della memoria storica, l’unica che può dare l’aire a una ricerca cinematografica in grado di ripercorrere un passato intimo e tumultuoso senza dover ricorrere alle stampelle della retorica. Prende il via in buona parte da queste riflessioni l’ultimo lavoro di Rithy Panh, inserito nella sezione Un certain regard alla sessantaseiesima edizione del Festival di Cannes e premiato con il premio principale dalla giuria capitanata dal danese Thomas Vinterberg.

Per quanto in Italia si continui a far finta di nulla, relegandolo al massimo a qualche passaggio televisivo notturno o a qualche rassegna, il nome di Rithy Panh è senza dubbio alcuno tra i più rilevanti per quel che concerne il panorama autoriale del sud-est asiatico e dell’intero globo. Fin dal suo esordio alla regia, Site 2 (presentato e premiato nel 1989 al Festival di Amiens), la sua poetica si è concentrata sulla storia recente della Cambogia, terra martoriata prima dal colonialismo francese quindi dai bombardamenti statunitensi durante la guerra del Vietnam, e infine da quattro anni di puro terrore vissuti sotto il potere di Pol Pot e dei Khmer Rossi. Proprio al sanguinoso regime che si installò a Phnom Penh tra il 1975 e il 1979 Panh ha dedicato la maggior parte dei suoi lavori, sia documentari che di finzione: sui lacerti lasciati dall’esercito di Pol Pot si innesta infatti lo sguardo dei vari Cambodia: Between War and Peace (1991), Rice People (1994), Bophana, a Cambodian Tragedy (1996), The Land of the Wandering Souls (2000), S-21: La macchina di morte dei Khmer Rossi (2003), Duch, le maître des forges de l’enfer (2011). Ma la scelta di concentrare la propria attenzione artistica su quell’epoca di disumane turpitudini non è dettata solo da un doveroso senso di appartenenza civile e di documentazione storica: ogni singolo film che Rithy Panh ha dedicato al tumultuoso passato della sua patria ha rappresentato in qualche misura un modo per fare i conti con la propria storia personale. L’intera famiglia del cineasta, infatti, morì (per eccesso di fatica e inedia) sotto il potere di Pol Pot, pagando con la vita la “colpa” di far parte della classe intellettuale, apertamente disprezzata da una distorta versione del marxismo che vedeva nel lavoratore della terra l’unico essere umano degno di comprensione.

L’immagine mancante, base teorica attorno alla quale ruota l’intero ingranaggio etico e visivo de L’image manquante, è dunque anche quella della famiglia, degli affetti più intimi. Per questo Panh, impossibilitato materialmente a dare corpo/immagine ai ricordi dei suoi genitori e degli altri parenti, è costretto a ricorrere a un “effetto speciale”: mentre la voce fuori campo rammenta in prima persona i fatti, entrando nel dettaglio per quel che riguarda ogni singola morte, con la chirurgica precisione di un coltello che affonda nel costato, sullo schermo le circostanze trovano una loro rappresentazione materiale attraverso personaggi in plastilina, ai quali non viene però concessa neanche la scappatoia della stop-motion. Immobili, quadri raggelati di una Storia che non potrà mai essere dimenticata, questi pupazzi sono il paradossale simbolo della realtà, l’unica forma oggettiva possibile in un universo altrimenti invaso da cinegiornali di propaganda, documentari di regime, immagini studiate e calcolate nel minimo dettaglio per elogiare la potenza della cosiddetta Kampuchea Democratica. Così come le vere immagini documentarie appaiono false e artefatte, costruite a hoc per un intento fin troppo scoperto, allo stesso modo le immobili figure modellate sprigionano uno spasmo esistenziale straziante, il pianto rituale di un cineasta che ancora non ha avuto modo di trovare l’immagine definitiva con la quale ricongiungersi al proprio Paese e la cerca insistentemente. Quest’immagine mancante è anche la forza, tuttora, del suo cinema: un’immagine eternamente da rintracciare, figlia e madre di altre migliaia di immagini, parti di una creazione che non si stacca mai completamente dall’esperienza umana di Rithy Panh. Nella sua ricognizione autoriale, Panh traccia una linea di analisi teorica del cinema contemporaneo e della vacuità delle catalogazioni (L’image manquante è forse un documentario? E se non lo è, cos’è?) che spiazza, sovverte e allo stesso modo riesce una volta di più a commuovere. Potere dell’immagine, anche quando non c’è.

RAFFAELE MEALE