All’interno di quel testo bizzarro, al contempo effimero e fondamentale, che è Psicomagia. Una terapia panica (pubblicato nel 1997), Alejandro Jodorowsky si trova ad affermare che: “Il mero fatto di ricordare un sogno equivale a organizzarlo”. In un altro punto del medesimo testo è invece possibile leggere: “Posso affermare che la mia vita è in sintonia con i sogni più fantastici”. Al di là di tutte le speculazioni alle quali ci si può affidare per tentare di spiegare il silenzio cinematografico (nelle vesti di regista) cui Jodorowsky si è trincerato negli ultimi ventitré anni, le due frasi succitate permettono forse di cogliere con una certa precisione i fantasmi che hanno agitato le acque della mente del cineasta cileno al momento di tornare dietro la macchina da presa per dirigere La danza de la realidad, ospitato nella selezione della Quinzaine des réalisateurs durante le giornate della sessantaseiesima edizione del Festival di Cannes.
La danza de la realidad, settimo lungometraggio diretto da Jodorowsky in quarantacinque anni di carriera, rappresenta il definitivo ritorno a sé di un autore fieramente sperimentale, mai allineato – spesso neanche al proprio stesso pensiero – ossessionato da una messa in scena in grado di debordare oltre gli argini del prevedibile, dell’ovvio, del già fruito. Non è facile approcciarsi a un film che, senza filtri di sorta, costringe lo spettatore a confrontarsi direttamente con la memoria storica del regista, scrittore, poeta, fumettista e psicomago: la storia narra infatti della sua infanzia a Tocopilla, capoluogo della regione di Antofagasta (nel nord del Cile). Figlio di un militante comunista, il piccolo Alejandro cresce nella sartoria di famiglia negli anni del governo fascistoide di Carlos Ibáñez del Campo. Questa, a voler rimanere fermi alla bieca sinossi, è La danza de la realidad. Ma, come ampiamente previsto da chiunque abbia conoscenza del percorso artistico di Jodorowsky, il film si trasforma da subito in un percorso onirico, in cui sogno e incubo sono due facce della medesima medaglia e si confondono l’uno nell’altro fino a perdere qualsiasi definizione reale, smarrendo i propri connotati.
Jodorowsky, presente anche in scena come io narrante e anziana memoria del “reale” (termine che nel cinema jodorowskyano assume sempre una valenza ambigua e fluttuante), infarcisce La danza de la realidad di dettagli che vanno dal grottesco al surreale, in un amplesso tra avanguardie storiche e dissacrante lettura del quotidiano che spariglia le carte in direzione di una nuova concezione di visione. Lo spettatore può così di volta in volta confrontarsi con una madre che comunica solo ed esclusivamente attraverso acuti da soprano, una agguerrita gang di disabili privi degli arti, un nano che sponsorizza la sartoria Ukrania, un concorso in cui si premiano il migliore e il peggiore vestito per cani, un’invasione di gabbiani sulla spiaggia, e chi più ne ha più ne metta. D’altro canto Jodorowsky non perde neanche l’occasione per promuovere la propria filosofia psicomagica: è così che prendono corpo sullo schermo, per esempio, sequenze come quella del colera guarito grazie all’urina della donna amata o quella in cui si rintraccia nelle foto date alle fiamme l’unico modo per ritrovare un rapporto equilibrato con il proprio ego.
Oggi come quarant’anni fa è fin troppo facile scagliarsi contro un’opera panica, disturbante e caotica come La danza de la realidad: si tratta infatti di una forma di autodifesa borghese da tutto ciò che non è controllabile, circoscritto, denaturato. Tossico e delirante, il cinema di Jodorowsky racconta ancora oggi il blaterante ballo del potere e lo demitizza attraverso le armi del paradosso. Il ghigno disilluso e vagamente stanco che appare di quando in quando all’angolo della bocca di Jodorowsky racconta, forse meglio di qualsiasi bombardamento visionario, l’esistenza artistica di un uomo che non ha mai accettato la prassi, pagandone spesso anche le conseguenze. La danza de la realidad è un’opera stordente anche grazie alle proprie imperfezioni, piccole smagliature di cui si può curare solo chi deve adeguarsi a un programma: e di questo il regista de El Topo e La montagna sacra non si è mai dovuto preoccupare.
RAFFAELE MEALE