Chi ha voluto e saputo, ha potuto finalmente festeggiare. Holy Motors, dell’intransigente, sregolato Leos Carax, segna l’ingresso nel Concorso di Cannes di un film decisamente e coraggiosamente “sperimentale”, che cioè non cerca rifugio nella tradizione e neppure si lascia tentare dalla ripetizione di sé, ma cerca fuori – secondo le proprie corde, com’è giusto che sia – nuovi strumenti, nuove conquiste necessarie, anzi, indispensabili a procedere.
La platea di una sala cinematografica assiste – addormentata davanti lo schermo – a una proiezione. Un uomo con un dito-passepartout apre una porta nascosta sotto la carta da parati della stanza di un hotel: dall’altra parte la sala con gli spettatori dormienti; dal luminescente fuoricampo proviene la colonna sonora del film, ma nessun controcampo giunge a svelare lo schermo. Un incipit, un manifesto, forse (anche perché l’uomo misterioso è interpretato proprio dal regista) dove non c’è più nessuna quarta parete da sfondare – siamo al cinema in fondo, non a teatro – ma una quinta, una sesta, per prendere lo spettatore alle spalle, piombandogli addosso dall’alto, irrompendo nel suo placido sonno.
Nonostante la sua ispirazione violentemente sovversiva, Carax non nega la narrazione ma l’ipostatizza, l’assolutizza, facendo coincidere lo stile del film con il processo della messa in scena e del racconto. Il film segue dall’alba al tramonto la giornata di un professionista anomalo che gira la città in una candida, interminabile limousine, attrezzata all’interno come il camerino di un attore saltimbanco: a ogni sosta un personaggio diverso, un diverso travestimento, una diversa missione – implicita e incomprensibile – da portare a compimento, da un turno di motion capture al dialogo con un’adolescente sulla strada di casa, dall’assassinio di un sosia, al rapimento di una modella in un cimitero.
Merde (nome del personaggio già comparso nel recente film a episodi Tokyo!, solo uno della lunga galleria che compare in Holy Motors) salta addosso all’assistente di un fotografo di moda divorandole due dita che la malcapitata usa per mimare le virgolette: non è un film metaforico, sembra dire Carax, ma un crudo fatto di stile, un “artefatto narrativo” autonomo che racconta senza racconto, mette in scena la messa in scena e che si costruisce sul corpo fisico degli interpreti (sopra tutti gli altri il sempre impressionante protagonista Denis Lavant), sull’intreccio ponderato tra azione e parola, che non significa ma allude, non imita ma registra. Una performance cinematografica – imbastita sull’atto del fingere e del rappresentare, sulla non verificabilità del vero, sulla falsificabilità persino della morte, sul movimento come fatto in sé significante – costruita sul principio del montaggio come principio che uccide e ricostituisce nella ripetizione, e sul corpo nudo, sul corpo in tensione degli interpreti. Carax mette insieme un cast bizzarro e perfetto (dal già citato Lavant al veterano Piccoli, dalla meravigliosa Eva Mendes all’impensabile Kylie Minogue) e lo getta in un film puro e violento come non se ne vedono di frequente, una lucida rapsodia che tocca spericolatamente gli estremi (il comico e il tragico, il sublime e l’ottuso), che procede densa e profonda senza tuttavia dimostrare alcuna aspirazione diversa dall’efficienza di sé e che – sia concesso – riconcilia con un Concorso fin qui tutt’altro che entusiasmante.