Dopo tante polemiche, è arrivato finalmente il momento di aprire i battenti per il Festival Internazionale del Film di Roma, che si terrà dal 9 al 17 novembre. Per la sua prima direzione della kermesse capitolina, Marco Müller è chiamato alla sfida decisiva della sua carriera (almeno in Italia, perché di porte spalancate all’estero ne avrebbe comunque a bizzeffe): dare un senso a un festival che in sei anni ha cambiato nome e volto senza mai riuscire a trovare una sua identità, continuando tra l’altro a pagare il peccato originale di essere nato come festival politico (nella gestione Veltroni). Popolare, pop e di ricerca: è come probabilmente lo vorrebbe Müller e bisogna vedere come lo “interpreterà” la stampa (non pochi quotidianisti ce l’hanno con lui) e come sarà accolto dal pubblico – i romani non hanno mai davvero amato questa manifestazione, anche perché continuano a non amare il luogo che la ospita, quell’Auditorium da cui la nuova direzione vorrebbe allontanarsi o, almeno, parzialmente sganciarsi.
Programma alla mano, i film interessanti sembrano esserci e sembrano essere molti di più di quanto non fossero nelle passate edizioni. Mancano, è vero, i grossi nomi americani, ma quello è un lavoro che va costruito sul lungo periodo e in ogni caso non è e non deve essere dal numero di star hollywoodiane presenti che si valuta un festival. Anzi, a quei divi che comunque calcheranno il fatidico red carpet (Stallone e James Franco in primis), Müller ha intenzione di chiedere qualcosa in più: ecco perciò l’incontro organizzato con James Franco e la presentazione di alcuni progetti cui l’attore-regista ha partecipato (Tar), a dimostrazione di una carriera capace di spaziare dal blockbuster all’indie alla sperimentazione.
E se nella sezione CinemaXXI – quello che sarà forse il vero cuore del festival – vi sono i nuovi film di registi che hanno fatto e continuano a fare la storia del cinema (Julio Bressane, Manoel de Oliveira, Amos Poe, Paul Verhoeven, Peter Greenaway, ecc.), non troppo di minor peso appare la selezione del concorso che, pur non annoverando quei riconosciuti e rinomati auteurs vantati da Venezia, è riuscita a mettere in fila Takashi Miike, Kira Muratova, Larry Clark, Valerie Donzelli e Feng Xiaogang, il cui 1942 è il primo dei due film-sorpresa del festival (vecchia mossa strategica mulleriana).
Interessante – molto interessante – anche la scelta dei tre titoli italiani: E la chiamano estate di Paolo Franchi, che pur essendo un regista discontinuo non è privo di una sua personale visione; Il volto di un’altra di Pappi Corsicato, che fu ingiustamente malatrattato qualche anno fa a Venezia con Il seme della discordia; e soprattutto Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi, uno degli autori più promettenti del panorama cinematografico nostrano.
Grande attesa ovviamente per il ritorno di Walter Hill, Bullet to the Head, con protagonista proprio Sylvester Stallone, e per Il cecchino (Le guetteur), il film francese di Michele Placido.
Interessanti sembrano le proposte di Prospettive Italia – la versione romana del Controcampo italiano veneziano – da La scoperta dell’alba di Susanna Nicchiarelli a Razza bastarda di Alessandro Gassman, fino a Cosimo e Nicole di Francesco Amato con protagonista Riccardo Scamarcio.