Se per Indignados di Tony Gatlif sarebbe stata auspicabile la partecipazione massiccia degli universitari della città per l’importante questione politica e sociale affrontata, nel secondo giorno del Festival del cinema europeo di Lecce, la sala del Massimo ha visto l’adesione di diversi studenti della città. Da quelli delle elementari accorsi per la visione della copia restaurata dal Centro sperimentale di Un burattino di nome Pinocchio di Giuliano Cenci (sezione Vetrina), a quelli delle superiori che si sono confrontati con storie di loro coetanei europei in cerca di identità proposte in diversi titoli in concorso. Se è possibile, infatti, identificare un elemento che accomuni i film presentati oggi, forse è proprio questa ricerca di un’identità spesso difficile da trovare.
Un percorso di sviluppo emozionale che deve passare sempre attraverso il confronto con la famiglia e le questioni irrisolte del passato in Fear of falling del regista polacco Bartosz Konopka (nomination all’Oscar 2010 per Królik po berlinsku). Il protagonista della pellicola è il trentenne Tomek, apparentemente integrato dal punto di vista professionale: anchorman televisivo dopo anni di gavetta e uomo sentimentalmente appagato dall’amore della sua sposa, corteggiata per due anni. Ma, giocando con i simboli e le metafore presenti nella pellicola, Tomek non è che l’ombra di se stesso sia quando è seduto nello studio del TG, sia perché non riesce a finire la ‘costruzione’ della sua casa, ancora senza scaffali per i libri. La casa/mente è luminosa, aperta e pronta a ricevere l’amore sempre desiderato, ma perché possa essere davvero tale, Tomek deve tornare in quella buia, piena di oggetti, sporca, disordinata, della sua infanzia dove vive ancora il padre schizofrenico, per il quale ha sempre provato un profondo amore non sempre corrisposto. La macchina a mano con primi piani ci porta nell’inquetudine di Tomek e, attraverso campi medi e inquadrature fisse, nel mondo del padre che respinge e, in altri momenti, accoglie il figlio. Konopka è in grado – con grande maestria e potenza visiva da autore maturo nonostante la giovane età – di tenere alta la tensione per tutti 90 minuti della visione fino alla risoluzione e pacificazione finale.
La potenza della volontà di una madre e il suo cercare di gestire le vite di tutti i componenti della sua famiglia è invece il tema portante di Kuma (seconda moglie) di Umut Dag. Il comportamento della donna, malata di cancro, non permette ai giovani figli e alla bella Ayse – portata in Austria da un piccolo villaggio turco per essere la seconda moglie – di realizzare la loro vita. Fatma costringe la ragazza, non a sposare il figlio (come era stato pianificato, anche perché la donna è consapevole che il figlio/promesso sposo è gay) ma suo marito in modo che la ragazza, alla sua morte, possa prendersi cura dei suoi figli. Attraverso primissimi piani, lo sguardo dello spettatore viene invitato a concentrarsi sulla determinazione dell’anziana donna e sull’ingenuità e ricerca d’amore di Ayse, che viene respinta da tutti i suoi nuovi figliastri, praticamente suoi coetanei. Soprattutto lo sguardo freddo, determinato, della maggiore della famiglia appare come un muro invalicabile. Ma la luce negli occhi di Ayse, la sua volontà di aprirsi al futuro cambierà i rapporti di forza all’interno del nucleo famigliare sconvolto dalla morte improvvisa del capofamiglia (non di Fatma). Umut Dag, classe 1982, rende credibile tale microcosmo lavorando soprattutto – e in maniera quasi esclusiva – con immagini chiuse di interni dai soffitti bassi che sembrano imprigionare tutti, aiutandoci a capire come in Austria e così nelle tante comunità sparse per tutta Europa, le nuove generazioni abbiano iniziato un vero percorso di integrazione spingendo quelle chiuse dei genitori a cercare un dialogo anche con la realtà e gli usi del loro nuovo Paese. Se gli anziani parlano solo in turco, i giovani comunicano quasi esclusivamente in tedesco e sarà proprio attraverso la lingua che inizierà il percorso di avvicinamento e di accettazione tra Ayse e i ‘figli’.
E se Kuma – presentato nella sezione Panorama dell’ultimo Festival di Berlino – risolve con speranza i conflitti narrati, completamente privo ne è Oslo, 31 st August di Joachim Trier, ispirato da Fuoco Fatuo di Pierre Drieu La Rochelle (come il film omonimo di Louis Malle dell’83). Qui la morte è l’unico modo per trovare davvero la pace per il giovane Andreas che non riesce ad accettare e fare i conti con un passato costellato di bivi davanti ai quali ha compiuto sempre la scelta sbagliata, deludendo se stesso e le persone amate. Ottimo il lavoro iniziale sulla sceneggiatura e azzeccata la scelta di giocare quasi tutto sulle soggettive e sullo sguardo del giovane: un trentaquattrenne della classe media che vede il mondo circostante, per quanto sempre chiuso, comunque circondato di spiragli di apertura (il terapeuta del centro, i parenti e amici del passato) che non vuole cogliere davvero, scegliendo la via più breve. Trier torna a Lecce con il suo secondo lungometraggio – presentato in prima mondiale al Festival di Cannes (sezione Un Certain Regard) -, dopo aver vinto nel 2006 l’Ulivo d’oro per il suo esordio, Reprise. E se tutto il primo film ruotava intorno alla psicosi del protagonista, qui è sulla sua inquietudine che opera il dramma. Andreas sembra tornare per alcune ore nella vita di prima per aver quasi la certezza e la giustificazione per arrendersi, quasi il personaggio ci dicesse: “è il mondo che non mi vuole più”. Tutto raccontato con macchina a mano fino alla decisione finale quando la scelta è stata presa. Solo allora ci allontaniamo da Andreas uscendo lentamente dalla sua vita ormai conclusa, attraverso la finestra rossa della casa, immersa nel verde rigoglioso e nella vita che il giovane ha rifiutato.
La seconda giornata si è conclusa nella sala uno dove Carlo Luglio e Enzo Gragnaniello hanno presentato Radici (Venezia 2011) e alla proiezione e dibattito è seguito il concerto del cantautore che si è esibito con i Sud Express.