Nella giornata conclusiva del Festival del cinema europeo di Lecce, sono stati presentati gli ultimi tre film del concorso e si è svolta la cerimonia finale che ne ha sancito il vincitore, Oslo, august 31st. Un festival dove, come ha affermato Sergio Castellitto: “si parla davvero di cinema” e che chiude i battenti con un bilancio positivo, afferma il direttore Alberto La Monica dando l’arrivederci all’edizione numero 14 prevista per i primi di aprile 2013.
Tra i film proiettati nell’ultima giornata, Above us only sky di Jan Schomburg era forse meritevole del premio alla miglior sceneggiatura perchè già dal tratteggio dei primi elementi ci introduce una storia costruita magistralmente per intrigare e coinvolgere lo spettatore. La pellicola inizia con il primo piano del capo di una sposa piegato nella recitazione della formula di rito della cerimonia nuziale, segue chiusura in nero, titolo del film e – nella sequenza successiva – la stessa donna nella sua casa. Probabilmente poche righe di sceneggiatura ma già anticipatrici di tutto il racconto per immagini che seguirà. Lo spettatore infatti si chiede subito perché non si veda lo sposo. In realtà Martha non conosce affatto Paul. Quell’assenza, quel fantasma ce lo preannunciava. I due sono stati insieme per 4 anni, si sono sposati ma quando, a poche settimane dalla loro unione civile, decidono di trasferirsi a Marsiglia, l’uomo si suicida e Martha scoprirà che non è mai stato un docente universitario ma che ha rubato l’identità a un coetaneo di nome Alexander. L’uomo assomiglia fisicamente al marito ed effettivamente lavora all’università e ha scritto il libro che Paul ha spacciato per suo. Viene insinuato persino il sospetto (Martha trova un messaggio sulla segreteria del cellulare) che il marito conducesse una doppia vita e avesse un’altra famiglia, ma è un elemento che viene solo accennato. Qui infatti c’è un altro interessante cambio di rotta nella sceneggiatura. Altra dissolvenza in nero e riapertura con Martha che incontra Alexander e inizia a parlargli come se si conoscessero da sempre, lo rivede su un autobus e lo porta nella sua casa, posa le chiavi, si spoglia, come faceva con il marito, invitandolo ad andare a dormire, senza che i due si siano neppure presentati ufficialmente, sappiano uno il nome dell’altro. Inizia tra loro una relazione spiazzante per lo spettatore, quasi surreale perché non rispetta nessun canone classico tanto che, sino a quando i due incrociano un’amica di Martha ad uno spettacolo teatrale, lo spettatore è portato a credere che tutto sia frutto della fantasia della donna o un suo modo per superare il lutto. Sorprende che una narrazione così intensa che vuole scavare a fondo nella percezione del reale nella società contemporanea sia opera di un autore al suo primo lungometraggio.Schomburg riesce a dosare brillantemente humour, estrosità, drammaticità portandoci nella vicenda della donna inquadrata nel contesto dell’ambiente, parte fondamentale della narrazione.
Daddy di Dalibor Matanic invece usa la radura delle montagne innevate di Lika in Croazia come metafora dello stato d’animo dei protagonisti. Inoltre due giovani donne e il loro padre iniziano un percorso di isolamento e perdizione: i conflitti, nati tra loro anni prima, troveranno una risoluzione violenta e senza via di redenzione in un luogo così isolato. Tutto appare privo di originalità sia nella struttura narrativa sia nell’analisi dei tre personaggi sia nella loro reazione emozionale con gli avvenimenti. Piatto anche il ritmo che non riesce davvero a creare mai il pathos necessario per una vicenda tanto drammatica. Speriamo che Daddy sia solo un film poco riuscito per un regista promettente come Dalibor Matanic, laureatosi in regia televisiva e cinematografica all’Accademia di Arte Drammatica a Zagabria e già vincitore a Lecce dell’Ulivo d’oro con Kino Lika nel 2009.
Concludiamo con Happy end. Il regista Bjorn Runge lo ha definito una fiaba per adulti dove cinque vite entrano in relazione tra loro senza sincerità. Una giovane donna vittima di violenze da parte del fidanzato e la madre di un figlio psicologicamente instabile, per amore e volontà di protezione, danno inizio a una serie di relazioni malate per mancanza di amore nei propri confronti e per l’incapacità di confrontarsi serenamente con gli altri. Due donne descritte con tutti i loro spigoli e mosse da passioni contrastanti che ci vengono rivelate da subito. Scenografie minimali per un film freddo che non vuole mai veicolare emozioni; lascia che sia lo spettatore a decidere quanto farsi coinvolgere dalla vicenda con un piccolo effetto sorpresa finale perchè, con la volontà si può uscire da dolore. Happy End è la terza parte della trilogia di Bjorn Runge sulla liberazione, cominciata con Daybreak (2003) e Mouth to mouth (2005).