Come voglio che sia il mio futuro

Maurizio Zaccaro dirige e coordina la realizzazione di un progetto di Ermanno Olmi che torna a Venezia con un nuovo prodotto della sua scuola laboratorio.
Intervista a Maurizio Zaccaro, regista di Come voglio che sia il mio futuro

Ermanno Olmi torna a Venezia, anche se solo in veste di nume tutelare, di padre e di maestro, di guida di un gruppo di giovani filmmaker. Come voglio che sia il mio futuro è un altro dei film collettivi usciti dall’officina delle arti che da sempre è Ipotesi Cinema, scuola sui generis, laboratorio, fucina di ingegni e di talenti dalla quale sono passati a decine tra i nomi di rilievo del cinema italiano, dagli anni Ottanta a oggi. Un argomento, anzi, un quesito, una domanda da porre, in giro per l’Italia, a bambini, adolescenti, ragazzi fino ai 24 anni, un manipolo di apprendisti filmmaker, e, infine, un coordinatore, un direttore artistico a raccogliere e combinare il lavoro di tutti gli altri. Maurizio Zaccaro – discepolo olmiano della prima ora – ha dovuto passare in rassegna tutto il materiale girato e poi scegliere, scoprendoci dentro trame ricorrenti, fili di un discorso vario, magari frammentario, ma coerente, e poi anche lasciando fuori i pezzi “stonati”, le esperienze spurie.

Presentato al Lido fuori concorso, Come voglio che sia il mio futuro denuncia chiara la sua natura di collage, al punto che lo stesso Olmi non ha esitato a inserire a un certo punto una piccola collezione d’inquadrature brevi, tratte da alcuni dei suoi film a soggetto, così, senza nessuna motivazione ufficiale, ma con l’intento implicito – ha spiegato poi Zaccaro – di farsi sentire concorde, vicino e partecipe rispetto al lavoro dei suoi “allievi”. Di fatto è questo il punto più debole del progetto: una scarsissima attenzione alla forma e l’incapacità di fare il salto drastico passando da una raccolta sconnessa di pensieri e parole a un discorso, se non compatto, almeno dotato di una struttura sua propria. Le testimonianze, le risposte, le questioni raccolte sono quasi sempre visibilmente frutto di un metodo, di un approccio alla vita e al cinema – quello di Ermanno Olmi – e si caratterizzano tutti prima di tutto per una rara, vitale freschezza, per una brillantezza assai lontana dal modello dell’intervista standard, lontana da qualsiasi stanca inchiesta para-televisiva, da tanto bricolage documentaristico pervicacemente praticato nel nostro paese. Tuttavia molto tempo è passato da quando Ermanno Olmi girava l’Italia con la cinepresa per ricostruire le storie nascoste della lotta partigiana, o per indagare il rapporto tra la popolazione italiana e la lettura; sono passati molti, forse troppi anni  anche da quando Olmi riprendeva gli adolescenti italiani in cerca di scoperte e di stupore. Molto tempo è passato e forse sarebbe necessario trovare strade nuove per lasciare che le anime, le menti, le coscienze di chi si decide di riprendere e di interpellare non solo compaiano ma appaiano anche e per davvero davanti l’obiettivo.

SILVIO GRASSELLI