Dopo il solito stralunato Anderson, il secondo film in Concorso a Cannes è subito politico. After the Battle (Baad el mawkaa) , nono lungometraggio dell’egiziano Yousry Nasrallah, prova a raccontare l’Egitto del dopo Moubarak attraverso l’accostamento di due vicende geograficamente vicine ma socialmente e culturalmente aliene l’una all’altra. Mahmoud è uno degli uomini a cavallo che hanno travolto la folla dei manifestanti anti-regime in piazza Tarhir, Cairo, nel febbraio del 2011; Reem è una giovane giornalista televisiva, borghese benestante, sostenitrice della rivoluzione: lei, affascinata, avvicina lui, caduto in disgrazia e in depressione dopo aver combattuto senza comprendere e senza ottenere vantaggi per sé, per la sua famiglia, per il suo adorato cavallo, e tenta d’aiutare e convertire. Ma non tutto è semplice come sembra.
Nasrallah non è un pivellino alle prime armi e si vede, ed è un fatto tutt’altro che scontato che un regista come lui cerchi di rendere raccontabile un presente tumultuoso e frammentario come quello del suo Paese, dell’Egitto nel pieno di una rivoluzione che non sembra trovare approdo. Tuttavia la strada scelta – il romanzo popolare, il verismo vecchia maniera – non si combina affatto con la materia complessa e incandescente sulla quale dovrebbe lavorare. La mescolanza spregiudicata tra cronaca – non ancora divenuta storia – e romance, filmati amatoriali veicolati dalla rete e messa in scena da soap opera di prima classe, discorso politico e dramma familiare – condito dall’intreccio sentimentale – invece di dar forza a una forma che si costruisca coerentemente con la realtà che si vorrebbe raccontare, finisce per metterne a rischio il legame vitale con il racconto. Si evitano i rischi del film corale ma s’incappa in altre vie scoscese che portano facilmente all’annullamento – attraverso la semplificazione – di ogni dinamica di conflitto, di ogni irriconciliabile asperità, alla cancellazione dei presupposti stessi di una rivoluzione.
La maestria di un autore e la qualità di una tradizione non cessano di affiorare di quando in quando nella scelta spericolata di uno zoom, nella sapiente direzione degli attori e più in generale in un’orchestrazione del racconto solidamente e lucidamente rivolta allo spettatore; ma un modo vecchio d’intendere e di fare il cinema segna il passo, fa sentire il fiato corto, un cinema ideologicamente schematico – che in questo caso schiaccia molte, troppe istanze, pur recuperando, all’occhio dello spettatore occidentale un groviglio di questioni semplicemente sconosciute – che perde contatto con le cose che gli si muovono attorno.