Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
Il Trento Film festival ha sempre tanti punti di contatto con l’indagine della contemporaneità che passa attraverso piccole o grandi storie di resistenza. Peak di Hannes Lang e La nuit nomade di Marianne Claud ne sono due esempi anche se ambientate a latitudini diverse in due continenti: l’Europa e l’Asia. Lang ci presenta, all’inizio del documentario, una serie di ritratti: canti popolari (campo medio di una donna tra le valli), la montagna innevata con i suoi impianti e con i turisti, una roccia sventrata da esplosioni e una vasca. Difficile comprendere il nesso fino a quando allo spettatore viene spiegato che la pietra della montagna viene usata a pochi chilometri a valle per costruire una sorta di bacino di contenimento dell’acqua necessaria per alimentare l’impianto di innevamento. Il ghiacciaio delle Alpi Venoste si è ridotto notevolmente negli ultimi 30 anni – la stima parla di 300-400 metri – e i teloni posati sulla roccia, la neve – 260mila metri cubi di neve prodotta al giorno (per un investimento, in 5 anni, di circa 5 milioni di euro) servono ad alimentare e a mantenere il ghiacciaio e con esso la vita della comunità. “Senza turismo non ci sarebbe nulla in questa valle” afferma uno dei protagonisti intervistati frontalmente e a macchina fissa perché lo spettatore ne ascolti le riflessioni potendo rimanere immerso in luoghi del Tirolo ancora incontaminati. Alla freddezza che arriva dall’imposizione alla natura, i gesti degli uomini della cava, di quelli che lavorano sulla neve artificiale, si contrappone chi resiste per amore e soprattutto il ritratto di una madre e di un figlio che continuano a vivere in una delle tante piccole frazioni ormai abbandonate dai tanti scesi a valle per il desiderio di migliori opportunità di vita e di lavoro. I due aspetti della montagna, il rumore dei mezzi meccanici viene contrapposto a quello dell’uomo che costruisce un muretto a secco o semina. “Le cose belle – come dice l’anziana – vengano distrutte e qui non c’è più amore e non c’è più dolore” come a dire che non c’è più vita e loro sono gli ultimi di una civiltà ormai morta anche se lì accanto la montagna è ancora frequentata da turisti. All’insieme manca, però, un buon ritmo e un nuovo montaggio non potrebbe che giovare ad un film che ha il pregio, non solo di tematizzare un aspetto importante della montagna, ma di poter contare su personaggi straordinari.
Storia di resistenza ma con altri metodi e altra grande qualità umana nell’Asia e precisamente nell’altopiano del Ladakh dove Marianne Claud – che abbiamo già apprezzato per Himalaya, terre des femmes, Genziana d’oro 57esimo Trento Film Festival – torna sulle montagne a lei care tra le famiglie zanskari delle quali, negli ultimi 10 anni ha imparato la lingua e raccontato gli stili di vita. Come in passato è affascinante l’uso del mezzo perché una volta individuata la tribù nomade da seguire – in questo caso le famiglie che vivono a circa 4500 metri per allevare yak e capre– Claud sceglie un approccio non istituzionale affinché il suo sguardo, il suo interagire con i soggetti sia al servizio della storia e dello spettatore. Nello specifico non pone domande ma aspetta che siano gli uomini e le donne a parlare con lei e le loro conversazioni e quindi la regista stessa, la sua voce, il suo modo di porsi rispetto ai problemi, sono parte stessa della narrazione, come la sua macchina da presa che cammina a fianco del bestiame durante le lunghe traversate tra i tre accampamenti o quando affianca una donna seduta a lavare i panni nell’acqua gelida (è una delle zone abitate più alte e fredde – soprattutto d’inverno – del pianeta). Anche qui, tra una tribù nomade che vive in queste pendici per allevare bestiame, rimangono impresse le parole di un anziano che anche se a latitudini lontane rispetto a quelle europee si ritrova a parlare di amore, “il cuore è contento solo a casa propria” nella consapevolezza che quei luoghi non sono adatti per i giovani e le famiglie – ora solo 20 – al prossimo inverno abbandoneranno la zona. La notte nomade sta purtroppo calando anche se l’anziano non vorrebbe andar via; il futuro sarà diverso e altrove.