Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
All’inizio del secolo scorso il Monte Bianco era la montagna europea più pericolosa e allo stesso tempo estatica. Scalarla poi era considerato quasi impossibile: dalla difficoltà relativa alla conformazione delle pareti a quella dovuta ai venti, che in vetta raggiungono anche i 150 chilometri orari. Negli anni Cinquanta e Sessanta la poesia dell’arrampicare di un giovane di nome Walter Bonatti riempì le cronache e regalò allo sport un ritratto positivo e affascinante. A quarant’anni Bonatti decise di ritirarsi e si mise a scrvere dei libri dove raccontava le sue scalate che divennero, ‘leggendari’ racconti poetici (cui venne riconosciuto anche un buon livello letterario). A 8 mesi dalla scomparsa dell’alpinista, il Trento film festival – nel corso della sua sessantesima edizione – ha presentato il documentario Walter Bonatti. Con i muscoli, con il cuore, con la testa di Michele Imperio e Fabio Pagani che avevano ottenuto il benestare dallo stesso alpinista per un racconto filmato della sua attività. Un omaggio interessante e commemorativo.
Altro film legato a Bonatti, presentato a Trento, è La voie Bonatti di Bruno Peyronnet, un mediometraggio che lo stesso alpinista avrebbe sicuramente amato per lo spirito giocoso e gioioso che lo contraddistingue e per l’originalità dell’idea. Appassionato di scrittura audiovisiva, il regista francese da anni è specializzato in riprese video in situazioni estreme. Con Christophe Dumarest, scoperta la comune passione e stima per l’alpinista italiano, ha deciso– coinvolgendo anche il ventunenne Yann Bargnet – di sviluppare un progetto di concatenamento: ripercorrere le vie aperte da Bonatti su alcune delle montagne da lui scalate, partendo dalla parete nord del Grandes Jurasses, per poi procedere con il Gran Capucin, il Pilastro Rosso del Bouillard e per terminare sulla vetta delle vette, il Monte Bianco e infine scendere in parapendio. L’inizio è molto divertente perché i due decidono di provare a scalare una prima parete con la stessa attrezzatura e gli abiti degli anni ’60 (“Pizzicano!” si lamenta Yann): corde poco elastiche e appoggi in legno. Poi, per il concatenamento, tornano all’attrezzatura in uso oggi mantenendo inalterata la volontà di raccontare e di praticare nello stile anche etico di Bonatti tanto che non hanno fatto uso di elicotteri per le riprese né di strumentazione elettronica per monitorare la situazione meteo. Peyronnet scalava insieme ai due alpinisti e la sua telecamera è stata per tutto il tempo – giocando soprattutto su campi medi che potessero esaltare il rapporto dello scalatore ripreso nel contatto con la roccia – al servizio del racconto dell’ascesa. Ripercorrere la traccia era l’obiettivo. Bonatti, presente con alcune riprese storiche (si vede anche un giovane Emilio Fede che lo intervista sul pendio di una vetta), i due alpinisti di età diverse – quindi tre generazioni a confronto nel rapporto con la montagna – esaltato tutto ciò che sta dietro l’impresa agonistica e cioè la poesia di tracciare le vie sulla roccia.
Tale elemento contraddistingue anche il lavoro artistico di Davide Carrari con Verticalmente demodé, anch’esso in concorso. In diciotto minuti il fotografo e filmaker ha deciso – con immagini in bianco e nero e a colori e tantissimi dettagli di polpastrelli sulla roccia e di gambe che cercano la massima estensione per conquistare un centrimetro in più di parete e un appiglio sicuro – di raccontare il rapporto di Maurizio Manolo Zonolla con un anfratto delle Dolomiti ribattezzato Eternit. Nel corso degli anni quella è stata la vetta più difficile che l’alpinista abbia deciso di scalare e il rapporto con quella parete di roccia quasi bianca (da qui il nome che richiamava la polvere bianca – mortale – che veniva prodotta in tante aziende della sua valle) ha caratterizzato il suo lavoro e l’inizio delle sue riflessioni ad alta quota. Come ha detto anche Sergio Fant – direttore della programmazione del Trento Film Festival – molti spettatori guardano i documentari di imprese che mai realizzeranno. Carrari ha provato, con Manolo , a far capire cosa capita nella testa di un alpinista quando l’amore per la roccia e per la ‘via’ diventano una piacevole ossessione. “Prima della via c’è il sogno” afferma l’alpinista nel documentario.