La violenza della Storia e dei rapporti umani negli ultimi due film passati in concorso a Venezia 67: il riuscito “Post Mortem” di Pablo Larraìn e l’inconcludente “Meek’s Cutoff” di Kelly Reichardt
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
06/09/10 – Dopo due brillantissime commedie di Carlo Mazzacurati e di François Ozon, in laguna, alla 67. Mostra del cinema di Venezia, approdano torvi drammi psico-storici, di diversa riuscita ma entrambi centrati su un generale degrado umano strettamente connesso allo scandaglio di una cruciale fase storica nazionale. Se infatti da un lato il cileno Pablo Larraìn, già autore acclamato per Tony Manero, narra in Post Mortem, con consueto approccio gelido e disturbante, una crudissima “non-storia d’amore” nei giorni del golpe del 1973, dall’altro in Meek’s Cutoff la statunitense Kelly Reichardt tenta (fallendo) di condurre un discorso su conquista del West e perdita di se stessi nelle sconfinate praterie dell’Oregon del 1845. E’ curioso sottolineare quanto Larraìn riesca laddove la Reichardt fallisce proprio sui medesimi territori di senso e tramite un simile metodo narrativo. E’ innegabile che entrambi i film tentino l’allegoria storica, ma tanto è sottotraccia, inavvertibile e pungente in Post Mortem, quanto è evidente, schematica e “a tesi” nella Reichardt. Il grande pregio di Pablo Larraìn sta nella distanza emotiva, che gli permette di conferire la giusta temperatura narrativa al racconto. Il suo racconto è agghiacciante, e altrettanto è il suo approccio, guidato da un falso (perché in realtà controllatissimo) grado zero della drammatizzazione. Non mero realismo (tanto che, a dirla tutta, non v’è molto di realistico in una città quasi sempre deserta durante i drammatici giorni del golpe), ma piuttosto espressionismo a cui l’autore perviene tramite gli strumenti del cinema “sporco” e sgranato. Se si può obiettare sul gusto fin troppo spinto di Larraìn per storie crude ed estreme, animate da personaggi ostentatamente sgradevoli, d’altro canto la messinscena non lascia adito a dubbi, tanto persuasive risultano la coerenza stilistica e la sintesi espressiva in tutta la loro potenza.
Meek’s Cutoff, invece, sperpera un ottimo soggetto in una realizzazione presuntuosa. Accolto da fischi e malumori alla proiezione stampa, il film di Kelly Reichardt tenta in realtà un’originalissima combinazione narrativa: il racconto della conquista del West di tre famiglie americane, lontano da qualsiasi approccio avventuroso e glorificante, in lento e progressivo spostamento verso un tesissimo dramma psicologico dai toni cupi e paradossalmente claustrofobici. E’ il rovescio della medaglia del sogno americano, che probabilmente già ai suoi albori si presentò come un incubo. I cowboy che strillavano in groppa ai loro cavalli sono lontani anni luce: la conquista del West fu dolore, fatica e disagio esistenziale. Soprattutto nell’incontro con un’alterità così “distante” e incomprensibile come la cultura dei nativi d’America. La tensione narrativa è notevole, ma la Reichardt, pur facendo sforzi sovrumani per dissimulare il proprio racconto, non si libera mai dalla struttura di un asfissiante film a tesi. Che si rivela come tale, strappandosi la maschera di dosso, man mano che la narrazione procede, tenendosi tragicamente lontano da qualsiasi vera progressione drammatica. Uno spreco imperdonabile, un vero peccato.