Venezia 67: fischi (eccessivi) per “La solitudine dei numeri primi” di Saverio Costanzo. Che tenta strade inconsuete per il cinema italiano, ma resta purtroppo inconcludente e privo d’equilibrio
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
Ascolta le interviste di RADIOCINEMA a cura di Giovanna Barreca a:
10/09/10 – Molta attesa, molti fischi. Era forse tra gli eventi di maggiore cartello, quantomeno per la nostra cinematografia, alla 67. Mostra del Cinema di Venezia. Purtroppo, La solitudine dei numeri primi, opera terza di Saverio Costanzo tratta dal notissimo romanzo di Paolo Giordano, lascia con l’amaro in bocca. Non perché si tratti di un’opera totalmente fallimentare (come le bordate di fischi alla fine della proiezione stampa potrebbero far pensare), ma perché sperpera talento a ogni passo, e demolisce la buona costruzione della prima parte in una seconda molto più affrettata e irrisolta.
E’ innegabile, infatti, che Costanzo tenti di percorrere strade inconsuete per il nostro cinema. Dotato di uno sguardo che, con termine un po’ stupido e fine a se stesso, potremmo definire “internazionale”, si fa forte di una chiave espressiva lontana dalla neo-convenzione italiana, con utilizzo creativo e portatore di senso d’inquadratura, montaggio e soprattutto (cosa davvero nuova per il cinema italiano di largo consumo) del commento musicale. Avvalendosi della collaborazione nientemenoché di Mike Patton, Costanzo perviene a un’ammirevole fusione di tutti i suoi elementi espressivi, in cui la musica, anzi la colonna sonora nella sua più ampia accezione, funge da collante narrativo, da vettore del racconto e conduce i due protagonisti nel tratteggio delle loro ravvicinatissime distanze. Altrettanto apprezzabile appare il tentativo di evocare una riflessione sulla vera essenza degli anni ’80 italiani. Mai in chiave di mera denuncia sociale, ma tramite una riflessione cinematografica. Decennio in via di storicizzazione, gli anni ’80, che Costanzo assume come scenario davvero significante per la prima volta nel nostro cinema. Le personalità di Alice e Mattia sono in sostanza il prodotto di un’omologazione abortita. Omologazione che si trasforma, da fenomeno sociale diffuso, in solida e “unica” realtà sociale proprio nei nostri anni ’80, e che assume le forme ben raccontate nel film (genitori ossessionati dalla realizzazione dei figli, tv commerciale, riti di massa discotecari, crudeltà sempre più avvelenata nei rapporti tra adolescenti, e dolorosi tentativi da parte dell’individuo di adeguarsi a modelli vissuti come schiaccianti). La struttura narrativa su tre piani temporali apparirebbe solida e avvincente, ma tutto si disfa, incredibilmente, nell’ultima mezz’ora, in cui gli Alice-e-Mattia adulti sono frettolosamente liquidati in una ipotizzabile “solitudine a due”. I protagonisti adulti si muovono innanzitutto in mezzo a pesantissimi e inspiegabili tagli al romanzo, e non conducono in alcun modo il discorso verso una sua reale compiutezza. La sensazione più forte è di aver assistito alla più lunga sequenza iniziale di un gran bel film nella storia del cinema. Gran bel film che si fa attendere, che ci fa trepidare nell’attesa. E che poi non inizia mai, senza trovare né un reale sviluppo, né reali conclusioni, né, tristemente, una ragione d’esistere.