Venezia 67: inizio col botto per la sezione-concorso, con “Black Swan” di Darren Aronofsky. Foschissimo dramma psicologico, magistralmente girato e interpretato, che tuttavia lascia qualche dubbio
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
02/09/10 – Dopo il Leone d’Oro 2008 per The Wrestler, Darren Aronofsky ritorna in concorso alla 67. Mostra del Cinema di Venezia, e apre la sezione competitiva accolto da un notevole entusiasmo della stampa specializzata. La sua ultima fatica, Black Swan, ripercorre solo in parte il discorso filmico condotto da Aronofsky nelle sue opere precedenti, e si configura al contempo come una conferma e un superamento. Si riconferma, infatti, la spiccata personalità dell’autore newyorkese, evidente in particolare nella mobilissima macchina da presa, nella sua capacità di giustificare qualsiasi movimento d’inquadratura senza apparire mai mero esercizio di tecnica. Forma che presuppone il racconto, e racconto che non vaga mai solitario nel delirio della forma. Il racconto, a sua volta, riconferma la vocazione dell’autore, precedente a The Wrestler, per lo scandaglio di psicologie crudeli e per il gioco d’intertesto (la vicenda principale che tiene a sfondo Il lago dei cigni di Cajkovskij), e soprattutto per una costruzione in crescendo, in cui il delirio della protagonista si avvita a spirale sempre più tragicamente su se stesso. Superamento, poiché stavolta Aronofsky applica il proprio metodo a un materiale archetipicamente fittizio. Il piano di realtà di riferimento non è la realtà, bensì un coacervo di influenze, reminiscenze letterarie e culturali in senso lato. E, se di superamento si tratta, l’autore va sì oltre se stesso ma verso direzioni talvolta pericolosamente manieristiche. Per paradosso, quelli che possono apparire i marchi di fabbrica più personali e riconoscibili dell’autore finiscono per condurre la visione verso la saturazione e il kitsch, voluto e ricercato, è vero, ma comunque oltre la soglia di guardia. Nel crescendo narrativo, infatti, il film culmina in un’ultima mezz’ora in cui la dimensione ossessiva si fa più sempre stringente, ma anche corredata di accensioni isteriche, talvolta grottesche, nelle sue punte più estreme un tantino gratuite. Così come è davvero troppo il materiale narrativo affastellato; le psicologie sono ostentate, ripetitive, insistite, e più volte, nel prosieguo della visione, emerge il sospetto di un invadente “sensazionalismo d’autore”, che spinge a forza nel perfezionismo disumano della protagonista (che non a caso trova il proprio vero compimento solo nella morte) il rovescio di un progressivo delirio onnicomprensivo. Repressione sessuale, madri oppressive, fantasmi saffici, autolesionismo ossessivo-compulsivo… Troppa grazia. Il perfezionismo genera mostri, ma un mostro non può aderire a ogni forma di deviazione psichica. A meno che non si voglia andare alla deriva, con scelta decisa, verso l’iperbole totalmente grottesca e sotto acido.
Ciò detto, Black Swan resta comunque un buon Aronofsky, sorretto da una prova maiuscola di Natalie Portman (in probabile corsa per la Coppa Volpi), che si prende il film sulle spalle e lo risolleva, per credibilità umana, ogni volta che rasenta il sovraccarico. Eccessivo, ma godibile.