Dalla nostra inviata LIA COLUCCI
Dopo essere stato presentato in concorso a Venezia 68, esce ora in sala La talpa, diretto dal regista svedese Tomas Alfredson, anche produttore esecutivo, e adattato per lo schermo dall’omonimo romanzo di John Le Carrè dagli sceneggiatori Bridget O’Connor e Peter Straughan. Con l’illustre precedente di una serie televisiva di 32 anni fa, il cui interprete principale era Alec Guinness, lo scrittore di bestseller aveva qualche dubbio che una vicenda così complessa potesse svilupparsi in due ore di proiezione; invece si è stranamente ricreduto. La storia ambientata durante la Guerra Fredda e in particolare tra il 1973 ed il 1974 descrive le vicende del Secret Intelligence Service, nome in codice Circus, il cui direttore noto come Controllo (un impassibile John Hurt), dopo una missione finita male in Ungheria, è costretto momentaneamente a uscire dal giro, così come il suo fidato agente Smiley (Gary Oldman), una spia dall’intuito eccellente. Poi però Smiley verrà richiamato in segreto per scovare la talpa che si annida proprio all’interno dell’organizzazione. I sospettati, viene detto ad un certo punto della pellicola, sono come i personaggi di una vecchia filastrocca che dà il titolo al film, almeno nella sua versione inglese (Tinker, Tailor, Soldier, Spy): lo stagnaio, il sarto (l’elegante Colin Firth), il soldato, con l’aggiunta naturalmente della spia.
Mentre il regista riesce a ricostruire con una certa abilità sia l’atmosfera della Guerra Fredda, sia un certo mood anni Settanta – normalmente difficile da far rivivivere con tanta naturalezza – lo svolgersi della vicenda, che dovrebbe essere un’arguta e avvincente caccia all’uomo, non vive di nessun ritmo incalzante. Alfredson si adagia sulla recitazione degli attori e, probabilmente o inconsciamente influenzato dal maestro di tutta la Svezia e cioè Bergman, si rifugia nella solitudine della spia, nel suo tormento, nei suoi dubbi. Ciò che viene fuori è una pellicola strana, un Le Carrè in salsa freudiana, dove anche il tradimento ha un motivo e il rancore verso il nemico diventa un’ossessione personale. Insomma, l’intimismo trionfa mentre l’azione svapora tra un gesto mancato e un amore impossibile. Si potrebbe denunciare quasi il tradimento di genere, ma il buon Le Carrè, che ha fatto la sua fortuna proprio grazie alla Guerra Fredda, ha colto l’occasione dell’Oscar a Le Vite degli altri per sdoganare i suoi romanzi un po’ démodé dell’epoca e accettare le proposte insperate del cinema. Colin Firth alla presentazione veneziana ha affermato: “Questo è il miglior progetto che mi è stato proposto dopo il Discorso del Re”. Ed era quasi malinconico. Non possiamo dargli tutti i torti.
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