Il male dentro secondo Michael Winterbottom
(Dalla nostra inviata Daria Pomponio)
22/02/10 – Tratto dall’omonimo romanzo di Jim Thompson, già collaboratore di Stanley Kubrick, “The Killer Inside Me” è la prima incursione di Michael Winterbottom nel cinema di genere americano. Ambientato nel polveroso e abbacinante Texas degli anni ’60, il film, presentato alla Berlinale 60, è stato accolto da fischi e fughe dalla sala per via di sequenze di atroce violenza atte a turbare lo sguardo e le viscere dello spettatore più sensibile. Nel riportare sullo schermo il romanzo hard boiled di Thompson, Winterbottom non lesina dettagli turpi e sanguinolenti né dimostra alcuna esitazione nel ritrarre le pratiche sadomasochiste che animano le prestazioni sessuali del proprio interprete principale (il bravo e ambiguo Casey Affleck) e la sua incontrollabile furia omicida. Sceriffo di una cittadina texana apparentemente tranquilla, Lou Ford (Affleck) è benvoluto dai propri cittadini, ma la sua è quel tipo di mediocrità da uomo comune che cela orribili pulsioni animalesche. Parlato in uno strettissimo e a tratti incomprensibile dialetto texano (per meglio restituire l’acre slang locale, Affleck a stento accenna qualche movimento labiale) “The Killer Inside Me” offre al nostro sguardo una sequela di efferati omicidi, la maggior parte dei quali hanno per vittime le donne amate dall’inquietante sceriffo e trovano spiegazione solo nel sadismo che serpeggia nel sangue del protagonista (la madre aveva il vizio di farsi sculacciare, il fratellastro aveva violentato una bambina).
Efficace nelle scene più crude, come c’era da aspettarsi dall’autore di film come “The Road to Guantanamo” e “Welcome to Sarajevo”, “The Killer Inside Me” sfoggia una splendida fotografia dai toni caldi e dorati (opera di Marcel Zyskind, già al fianco di Winterbottom per “The Road To Guantanamo” e “Genova”) e offre a Jessica Alba e a Kate Hudson l’occasione per dimostrare il proprio valore (su Affleck non avevamo dubbi), ma scivola rovinosamente nella noia per la scarsa attenzione al ritmo del thriller. Ogni crimine commesso dal protagonista è infatti seguito da interminabili e ripetitivi pseudo-interrogatori al perfido Lou, da parte di colleghi delle forze dell’ordine e concittadini. Presto o tardi tutti si ritrovano infatti a sospettare dello sceriffo e si presentano al suo cospetto per tentare, senza troppa convinzione, di farlo confessare. Ma Lou, naturalmente, ha sempre una fantasioso alibi per tutti. Nonostante dunque la fascinosa elaborazione formale e le buone performance attoriali, il noir non decolla mai e fa affidamento solo sul decòr e sulla fotografia. Ed è un vero peccato, una maggiore condensazione e una migliore scansione del ritmo del poliziesco ne avrebbero fatto un ottimo film. Perché in fondo va detto, anche il più celebrato e premiato degli autori, a volte, ha bisogno di prendere qualche lezione dal cinema di genere classico americano.