Dal viaggio nella perdizione di “After” alla commedia sofisticata di Reitman con George Clooney, arriva un po’ di aria fresca nel concorso del Festival del Film di Roma
(Dal nostro inviato Alessandro Aniballi)
18/10/09 – Lunico film spagnolo in Concorso al Festival di Roma, After di Alberto Rodriguez, spariglia un po le carte rispetto a quel che si era visto finora. La disperazione esistenziale che il regista riesce a immettere nella pellicola è resa in modo tanto viscerale e veemente da riuscire forse a scuotere la coscienza di qualche spettatore. I tre protagonisti, amici da una vita (o forse da mai?), passano una notte e una mattinata di deliquio e perdizione, cui si incrociano varie rimembranze dei rispettivamente squallidi passati. Girato con una certa personalità e fortificato anche da unottima caratterizzazione dei personaggi secondari, After resta soprattutto uno studio quasi osceno dei corpi e delle anime delle tre figure principali, spesso riprese in dettaglio e macchina a mano, come in una costante (e vana) ricerca del quid della persona che si ha di fronte. Questa interessante prova autoriale viene però rovinata in parte da una sceneggiatura che alla lunga si fa meccanica e ripetitiva, per un programmatico détour figlio di Amores perros e dei film a incastro che hanno fatto la fortuna di Inarritu e Arriaga. Fortunatamente After evita di rovinare nellultima parte, grazie a una costante immissione di piccola umanità (come il ragazzo che chiede un euro per un biglietto dellautobus dopo aver fatto sesso con la protagonista): solo così i personaggi riescono a mantenersi vivi fino alla fine senza farsi sovrastare dalla struttura narrativa.
Non altrettanto positivo ci è parso Chaque jour est une fête, primo lungometraggio del regista libanese Dima El-Horr, prigioniero di una costante ricerca dellinquadratura a effetto e della Visione presuntamente indimenticabile. Ne consegue una sostanziale piattezza narrativa, non riscattata dai momenti contemplativi che appaiono sempre troppo artificiali. Certo, non tutto è da biasimare in questa storia completamente al femminile in cui gli uomini sono assenti/morti/fantasmi/uccisi, perché portati via dalla guerra o dalla povertà. Ma il simbolismo, seppur interessante, non ha la forza per reggere tutto il film (cosicché le tappe dei personaggi suonano decisamente elementari: si veda la scena del cane lupo ucciso, quella della pecora morta, quella della gallina spiaccicata sul parabrezza, ecc.) e allo stesso tempo tarpa le ali a qualsiasi sbocco narrativo.
Questa giornata è però da ricordare soprattutto per il ritorno di Jason Reitman che due anni fa qui a Roma vinse e convinse con Juno. Il suo nuovo film, Up in the Air, sconta probabilmente gli stessi difetti di Thank You for Smoking (2005), il primo lungometraggio del regista: una sceneggiatura a tratti zoppicante, in cui non tutto alla fine ruota per il verso giusto. Sia Up in the Air che Thank You for Smoking sono stati scritti dallo stesso Reitman, seppur in collaborazione, mentre Juno fu partorito dalla geniale penna di Diablo Cody. Inoltre Up in the Air a prima vista appare molto più convenzionale delle precedenti prove del regista, quantomeno sotto il profilo narrativo (anche se nel finale cè un sostanziale deragliamento…). Detto ciò, va riconosciuta a Reitman unottima capacità nella costruzione dei personaggi, una brillantezza inusuale nei dialoghi e una regia elegante e efficace senza essere mai invadente, qualità che è riuscito a mantenere intatte nonostante si trovasse per la prima volta a lavorare per una major. E non è da sottovalutare il discorso che viene fatto sulla crisi finanziara in atto: il protagonista George Clooney è una sorta di Lucifero, angelo caduto sulla Terra e costretto, per mestiere, a licenziare lavoratori di grandi o piccole aziende in giro per gli Stati Uniti, fino a rendersi conto di essere condannato, per contrappasso, a non avere una vita privata, quasi come il John Wayne di Sentieri selvaggi o il Tom Cruise de La guerra dei mondi; con la differenza che lui, invece di salvare la famiglia-società, consegna lettere di licenziamento e dovrebbe poi cercare di reintegrare i neo-disoccupati nel mondo lavorativo. Dunque, pur con qualche dubbio, non si possono negare a Up in the Air né la corposità di unopera stratificata, né la leggerezza di una commedia giocata secondo i giusti ritmi, il che ne fa uno dei migliori film visti finora al Festival.