Che il giovane Paul Dano fosse uno dei talenti più promettenti della sua generazione lo aveva già dimostrato Il Petroliere, rivelandone tutta l’intensità drammatica nel duplice ruolo del fanatico predicatore Eli Sunday e del suo gemello Paul. E a quattro anni di distanza dal capolavoro di Paul Thomas Anderson, è un piacere ritrovarlo in una sorprendente vis comica, protagonista di questa curiosa commedia, affiancato da un cast eccellente che comprende Kevin Kline , John C. Reilly, la ritrovata Katie Holmes e Dan Hedaya. Tratto dal romanzo Io e Henry di Jonathan Ames (già autore della serie HBO Bored to death) co-sceneggiatore insieme ai registi Robert Pulcini e Shari Springer Berman, Un perfetto gentiluomo è un film brillante ma discontinuo, il cui tratto principale è una ricercatezza demodé sotto ogni aspetto, dalla rappresentazione di personaggi fuori dal tempo (e fuori luogo), allo stile che, non senza un certo manierismo, ammicca in molte sue trovate al cinema d’antan.
Punto di forza della pellicola è la coppia di personaggi principali, tratteggiati con un acume volto a coglierne con humor malinconico il lato più anacronisticamente umano: da un lato l’insegnante Louis Ives, colto e raffinato, col mito di Scott Fitzgerald e la propensione al travestitismo, che, perso improvvisamente il lavoro, si ritrova a condividere un appartamento a New York con un eccentrico coinquilino, l’attempato ex drammaturgo Henry, dietro il cui azzimato aspetto da gagà e le arie da viveur, si nasconde un adorabile cialtrone squattrinato, opportunista e scroccone, nonché, all’occorrenza, gigolo d’alto bordo per vegliarde dell’alta società. E se agli interpreti (compresi quelli secondari) va il merito di concedersi con grande generosità – in tono più dimesso per Dano, gigioneggiante per Kline – la regia di Pulcini e Springer non sempre riesce a tenere il passo con la loro verve, arrancando a più riprese tra gli arzigogoli di una narrazione confusa e dispersiva. Così, se nella prima parte si ride parecchio, tra dialoghi strampalati e gag esilaranti, nonostante l’insistenza su certe linee meno efficaci del plot, a scapito di quelle dal maggior potenziale (il rapporto con le ricche clienti di Henry sulla confusione sessuale di Louis, ad esempio), nella seconda, col venir meno della componente buffonesca a favore di un risvolto più intimista, il ritmo inizia a cedere e la noia fa capolino, per riscattarsi solo nella delicatezza del finale. Ne emerge tuttavia, un duplice ritratto, al tempo stesso spassoso e malinconico, di due esistenze marginali e disadattate, e, benché non sviluppata come avrebbe meritato, una riflessione sensibile e coraggiosa sull’identità di genere, inusuale all’interno di un prodotto di intrattenimento mainstream.
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