Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Rabbit Hole di John Cameron Mitchell: riflessione non banale sull’elaborazione del lutto, che però tradisce la propria derivazione teatrale, perdendo in efficacia drammaturgica
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
18/02/11 – Del lutto più atroce e indicibile, la perdita di un figlio, negli ultimi anni il cinema ci ha offerto svariati racconti secondo chiavi molto diverse. Più disperato addirittura di La stanza del figlio di Nanni Moretti, Rabbit Hole è però anche molto meno efficace sul piano drammaturgico: com’è ovvio in un racconto simile, il film di Mitchell mostra personaggi che cercano risposte, espiazione e significato per un inafferrabile dolore, ma che al contrario del solito non approdano a nulla. Non c’è catarsi, niente ha senso, la vita non ricomincerà mai. Non resta, per la coppia a cui il figlio è stato strappato, che aspettare insieme che il tempo passi, stoici e fievolmente fiduciosi che, nonostante tutto, la vita abbia poi davvero un senso e prima o poi lo manifesti. La loro convinzione è debolissima, non resta altro che vivere. Aspettando, chissà, forse nulla.
Perché il film di Mitchell, pur apprezzabile, risulta comunque non del tutto efficace? Per questioni di sceneggiatura, innanzitutto. Per la sua derivazione teatrale, in primo luogo. Va dato atto all’autore della pièce e della stessa trasposizione cinematografica, David Lindsay-Abaire, di aver ben dissimulato la provenienza teatrale in una scrittura ariosa e non passiva al testo originario. Non si respira mai aria di brutto “teatro in scatola”, e questo soprattutto per puri meriti tecnici di scrittura. Le ambientazioni sono varie, gli interni non sono mai dominanti, le vite dei protagonisti si mantengono credibili anche nella loro “amplificazione all’esterno” (capita spesso, invece, che l’amplificazione in ambiente-cinema di personaggi teatrali, giocoforza condannati agli interni, risulti terribilmente pretestuosa e insignificante). Nulla, insomma, è trasformato in cinema tramite modifiche meccaniche e fini a se stesse. Tuttavia, un po’ fatalmente la derivazione teatrale si fa sentire nel dialogo.
Forse ciò è inevitabile, ma è pur vero che, se in teatro si ha a disposizione la parola e poco altro per esprimersi, nel cinema si dispone delle immense risorse dell’immagine, e quindi il dialogo originariamente teatrale dovrebbe essere riscritto, ripensato, totalmente rifondato. Purtroppo, in questa direzione Lindsay-Abaire non mostra di aver fatto grandi sforzi, e il dialogo si conserva irrimediabilmente verboso, insistito, didascalico. Finendo per consegnarci personaggi totalmente autocoscienti, così perfettamente consapevoli di sé che viene spesso da chiedersi come possano provare un vero dolore. Il racconto, è vero, mostra un altro grande pregio, ovvero la capacità di parlare del lutto nella sua veste più concreta e oggettuale possibile. Elaborare non significa, per Abaire e Mitchell, perdersi con lo sguardo verso sconfinati orizzonti, ma significa anche rapportarsi con oggetti divenuti insostenibili (disegni, giocattoli, animali…), significa scontrarsi con il loro quotidiano ripresentarsi, che impone decisioni e scelte, magari prese durante una chiacchierata qualsiasi con la madre. Gli strumenti per una narrazione non enfatica e non banale, insomma, ci sarebbero tutti. Manca però una sensibilità per le ellissi narrative, che non sono di certo obbligatorie, ma che si tramutano in necessarie se si vuol narrare la confusione di personaggi che hanno perso contatto con se stessi. Così, il film è saggio e sobriamente disperato, ma poco credibile nelle sue figure umane.