Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Il padre dei miei figli di Mia Hansen-Løve: cinema “fenomenologico” francese, che per evitare il racconto tradizionale, non racconta
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
18/06/10 – C’è, dietro a Il padre dei miei figli di Mia Hansen-Løve, una vera tragedia personale, oltretutto così legata intimamente alle difficoltà dello stesso cinema odierno, che mette davvero in grande crisi chi si trova a scriverne. Raccontare la vicenda reale di un produttore che si è sempre battuto contro tutto e tutti per il cinema di qualità, operando scelte professionali davvero coraggiose fino a rimanere stritolato dagli spietati ingranaggi di una pessima industria, è, su un piano puramente contenutistico, opera meritoria, quantomeno in funzione della futura memoria storico-sociale. Però, se l’ironia non fosse, in questo caso, realmente così tragica, verrebbe da dire che forse Humbert Balsan non avrebbe mai prodotto questo film. Non tanto per la retorica (eppure, a conti fatti, il film ne è zuppo), quanto perché sul piano narrativo sceglie l’antiretorica, ma con scelta indecisa e balbettata, senza mai proporre una valida costruzione drammaturgica.
Il racconto tradizionale, inzuppato nel melodramma più classico e stentoreo, è fermamente rifiutato, sebbene gli ingredienti narrativi siano proprio da grande melodramma. Hansen-Løve tenta un depotenziamento delle tonalità, seguendo una linea molto europea (molto francese, soprattutto) di cinema “fenomenologico”, sguardo e narrazione puramente fattuale senza sottolineature e grossolane evidenze drammatiche. Narrazione di figure umane in azione, calate in un contesto ben preciso, dove si tenta con sforzo sovrumano di tener fuori il giudizio. Peccato però che, insieme al giudizio, sparisca anche il lavoro di scelta da parte dell’autrice “totale”, che si è occupata di regia, soggetto e sceneggiatura. Una sceneggiatura nella prima parte dialogatissima, che si porta addosso il cliché del “produttore in azione” (cellulare onnipresente, registi rompiscatole, mille beghe da risolvere, la famiglia trascurata e la moglie stizzita… ufff…). Segue una seconda più meditativa, dove si vorrebbe rendere appassionante l’affanno della moglie nel tentativo di salvare la baracca della casa di produzione. Con annesse agnizioni adolescenziali fuori luogo (la figlia che scopre l’esistenza del fratellastro… se realmente è accaduto, è pazzesco come nella finzione si possa rendere stucchevole anche un fatto vero quando privo di un adeguato sostegno narrativo). Si può risultare terribilmente didascalici anche facendo un ricorso parsimonioso al dialogo, intervallato da silenzi significanti e brani di sospensione. Perché poi, specie nella seconda parte, si parlerà pure poco, ma si parla per macroscopiche categorie e luoghi comuni abbacinanti. “Di lui resteranno i film” e molte altre battute tra il piagnucolio sommesso e lo stentoreo non rendono un buon servizio a Il padre dei miei figli. Non raccontano, ma affermano, e nient’altro. Affermano, oltretutto, verità facili e prive di vera passione.
In ultima analisi, infatti, ciò che sembra sparire è sia un vero racconto, sia il peso storico-culturale di un produttore illuminato, sia una vera passione cinematografica che si presume nell’autrice. E un produttore appassionato, come Humbert Balsan è stato, non amerebbe mai un film privo di vera passione per il cinema.
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