Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Fish Tank di Andrea Arnold: racconto di britanniche rabbie, al massimo grado di compattezza tra scrittura e realizzazione
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
30/07/10 – Chiudiamo in bellezza la stagione 2009-10 di Parola al Cinema con uno dei tristemente consueti miracoli dell’estate italiana. Esce infatti, a fine luglio in piena afa di città, Fish Tank di Andrea Arnold, opera seconda, stracarica di premi raccolti in tutto il mondo, di un’autrice britannica già due volte Premio della Giuria a Cannes. Opera tra le migliori viste quest’anno in sala, che solo una distribuzione bislacca come la nostra poteva trattare come un qualsiasi scarto di magazzino per riempire il mese di luglio. Tant’è. Con questi chiari di luna c’è anzi da esser contenti che il film ci sia arrivato in sala, a più di un anno dal suo glorioso passaggio a Cannes.
Fish Tank si mostra come un puro racconto per immagini, tutto centrato sul pedinamento di un personaggio centrale, indagato nel suo disagio familiare, sociale, psicologico, disagio che prende forma tramite una “rabbia di vita” come molto cinema britannico ci ha spesso raccontato. Ovviamente i riferimenti più facili (e anche più banali) s’identificano in Ken Loach e Mike Leigh, ma la Arnold rifiuta seccamente lo spudorato didascalismo del primo e la teatralità (sia pure mascherata) del secondo. Il racconto pare procedere senza scrittura, e per tutta la prima metà è evidente e assai produttivo il totale rifiuto di una drammaturgia convenzionale. Dramma senza intreccio, senza personaggi che si avviluppano intorno a una preordinata catena di eventi. Del personaggio di Mia i tratti vengono forniti sempre “di seconda mano” (del suo passato, ad esempio, vengono fornite sommarie informazioni in “fuori campo” dalla madre durante il dialogo con l’assistente sociale, mentre la macchina si concentra sulle azioni di Mia). La narrazione è totalmente esteriore, come radiografia di comportamenti che da soli si mostrano e si spiegano, ben lontana da sottolineature, psicologismi o facile sociologia. Rapporti conflittuali madre-figlia, totale sbrindellamento di ruoli e categorie, disagio proletario, alcool e violenza, ma tutto narrato al di qua del giudizio, con sguardo duro e amorevole e mai enfatico. Solo nella seconda parte la sceneggiatura assume, poco a poco, tratti più consueti, e delinea per gradi una costruzione drammaturgica più classica, ma sempre nell’ordine di un depotenziamento delle convenzioni. Quando infatti il racconto rasenta il melò (l’uomo diviso tra madre e figlia, la vendetta incompiuta di Mia), la Arnold si tiene comunque lontana e non si addentra nella prevedibilità di una vera struttura. L’intreccio si avvita intorno a madre-figlia-uomo, ma la tragedia non si compie. La rabbia e la violenza restano sottotraccia, e non esplodono. Realismo, innanzitutto. Il racconto cede soltanto verso qualche stonato ed eccessivo simbolismo (Mia che vuol liberare testardamente la cavalla…) e nel prevedibilissimo finale di fuga. Ma è davvero arduo, in questo caso, delimitare i meriti di regia e scrittura. Fish Tank esiste solo in virtù della sua messinscena, e tuttavia la messinscena esiste solo in virtù di una calibratissima e partecipata scrittura. Cinema d’autore nel senso più puro del termine, in cui cioè scrittura e realizzazione si tengono insieme nella forma più intima ed efficace.
A settembre. Buone vacanze.