Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Il discorso del re di Tom Hooper: grossa delusione per un “album di Famiglia Reale” britannica, privo di struttura di racconto e di vera progressione narrativa
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
04/02/11 – La Famiglia Reale britannica è sempre stata un buon soggetto per il cinema. Negli ultimi dieci, quindici anni, soprattutto, si è tramutata sempre più di frequente in materia di racconto. Nei casi migliori, come The Queen di Stephen Frears, una tranche di vita a corte si è trasformata in occasione per parlare di altro, ovvero di mutamenti nel tessuto sociale e antropologico di un paese, se non dell’intero mondo occidentale. Il discorso del re, invece, è davvero un brutto film, papale papale. E davvero si resta a bocca aperta nel vedere quanto si siano abbassate le aspettative delle giurie degli Oscar, se giungono a scambiare per “qualità britannica” un prodotto così anonimo, girato frettolosamente, guastato da terribili svarioni di fotografia, con stile, narrazione e personaggi da prodotto televisivo. Privo, più di tutto, di una vera ragion d’essere, se non quella di narrare qualche bega interna alle dinamiche della casa reale senza che ciò acquisti significato universale.
Il problema, sopra ogni cosa, è di sceneggiatura. Poiché il soggetto in realtà sarebbe molto buono: la traduzione di una figura storica “inadeguata” al proprio ruolo in alta figura tragica, “shakespeariana” (non a caso nel film è citato il Riccardo III, figura che fa della propria menomazione fisica un rovello psichico di inadeguatezza e, in quel caso, di rivalsa e sete di potere). Trattare, quindi, una figura storica per elevarla a significante di un’epoca in mutamento (l’emergere della radio come strumento di massa che obbliga a rispettare schemi di “apparenza”, sia pure vocale; il conseguente mutamento dei rapporti di forza tra classe dirigente e popolo, che lentamente si tramuta in pubblico), e magari anche a significante di una condizione umana universale. Purtroppo, però, ne Il discorso del re tale intento dev’essere rimasto confinato alla stesura del soggetto, poiché non se ne avverte più traccia nel tessuto narrativo. Il racconto resta incerto e inespresso, senza trovare mai una propria definitiva collocazione. Sulle prime, infatti, il rapporto tra il futuro sovrano e il suo logopedista crea aspettative di progressione drammatica, che scavi a fondo nelle ragioni di quel disagio riconvertito in balbuzie. Ci si aspetta, insomma, un pur tradizionale dramma psicologico, non privo di note umoristiche, ma comunque solido e profondo. Al film, invece, difetta tragicamente qualsiasi progressione narrativa, e lentamente quel rapporto paziente-dottore, struttura portante del racconto, si richiude tutto nel privato, punteggiato di timidi cenni ironici (l’incontro tra la moglie del logopedista e la coppia di sovrani…). Che anche nella sfera privata, però, resta di pura superficie, non motivato, non significante. Così come la catarsi finale, sommessa, non plateale (il re balbetta un po’ anche al microfono della radio, solo in modo meno invalidante) ma comunque garantita come vuole il canone classico, giunge piovuta dal cielo, non radicata in una vera motivazione narrativa. Dei metodi del dottor Logue, in fondo, il racconto permette di sapere poco o nulla, e così il risultato appare più un miracolo casuale che un vero ottenimento.
Pensiamo a quante e quali occasioni di riflessione si sarebbe prestato un soggetto simile se sottoposto a una lettura meno pallida e amorfa, e aperta a risonanze più ampie. Tira aria invece di cinema da salotto, da puro pettegolezzo d’epoca. Cinema vecchio e polveroso, che stavolta non si salva nemmeno nella scarsissima confezione. Questo è il film da Oscar dell’anno? God save the King. And save us, as well.