The Road di John Hillcoat: tremendo e pesantissimo racconto allegorico post-11 settembre, con annesso “accanimento terapeutico”
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
04/06/10 – E’ ovvio che il suicidio non sia una pratica da sostenere e caldeggiare. Ma che la povera Charlize Theron, nei flashback di The Road, sia investita di una posizione narrativa così ingrata fa arrabbiare oltremisura. Condanna inappellabile per un suicidio visto come supremo atto di egoismo, cosicché la poverina, che in un grigio mondo post-apocalittico non vede più futuro (come darle torto?), non solo, meschina, va a morire, ma è pure guardata con un certo disprezzo. Scherzi a parte, questo è solo uno dei tanti enfatici elementi narrativi che compongono l’opera di John Hillcoat, insostenibile centone di misticismi a buon mercato, che da una parte avrebbe la rara qualità di prendersi sul serio (di solito i recenti film americani a soggetto post-apocalittico sono poco più che giocattoloni), ma che, alla resa dei conti, forse ne avrebbe guadagnato se l’autore l’avesse buttata tutta sull’opera di genere. Perché dell’opera di genere ne conserva parzialmente i tratti, sia pure tramite strumenti assai convenzionali (la peripezia infinita, lo scontro tra sopravvissuti declinato sotto forma di western moderno, una nota costante di melodramma nel rapporto padre-figlio e nel rimpianto per la donna perduta), e quando Hillcoat gioca sul pedale narrativo dell’uomo solo sulla Terra, confeziona se non altro apprezzabili pagine di suspense e angoscia. Così come sono apprezzabili la veste formale, la musica a cui ha messo mano pure Nick Cave, la scelta delle tonalità cromatiche. La ricerca del realismo in un universo non direi nemmeno fantastico, ma “postulabile” (ammesso e non concesso che la fine del mondo sia poi così vicina come tanti autori americani si affannano a raccontarci). Purtroppo, però, nel suo insieme il racconto è pedantemente scolastico, prevedibile fino alla noia in ogni sua svolta narrativa, irritante nella costruzione dei due protagonisti, soprattutto nella figura del bambino, che pare un Bignami della Giovane Marmotta (questo è Bene, questo è Male… bisogna amarsi, non bisogna odiarsi… grazie mille).
Lungi da noi di fare del contenutismo, metodo analitico ormai largamente superato dalla storia della critica, ma ci sia concesso almeno di dire che, quando si affrontano argomenti a rischio di altissima banalità, è necessario quantomeno uno sguardo, un discorso dell’autore convincente e prettamente cinematografico, che conferisca valore all’opera e che dia forza anche ad argomenti deboli. Hillcoat e i suoi sceneggiatori, invece (e magari pure Cormac McCarthy, che ha scritto il romanzo), procedono per convenzioni e pesantissimi didascalismi, e compongono un racconto anche un tantino inquietante perché sorretto alla base da rocciosissime e malcelate certezze. Dopo l’11 settembre, riferimento allegorico fin troppo ovvio, la diffidenza ha invaso e allontanato gli esseri umani, ma alla fin fine Hillcoat lo racconta come un male necessario (si veda l’episodio del vecchietto interpretato da Robert Duvall), e quel che sembra premere più di tutto agli autori è il terrore per un’ipotetica scomparsa della cultura occidentale. La nostalgia per la coca-cola, per le calze appese al focolare, per l’albero di Natale, la gioia per i bei prodotti della marca preferita ritrovati nello scantinato… Se oggigiorno le angosce occidentali si riducono a questo, stiano pure tranquilli tutti quanti, verrebbe da dire. E cosa rompe la diffidenza del bambino sul finale? Forse trovare il tanto agognato coetaneo con cui confrontarsi? No, bensì il ritrovamento di una famiglia, simulacro inattaccabile della cultura americana. E, per tornare all’esordio del nostro discorso, non vi è forse nella condanna del suicidio una sottaciuta polemica sull’aborto e sul tanto discusso “diritto alla vita”? Ma la scelta della vita, si potrebbe controbattere, può trasformarsi in “accanimento terapeutico” se, in uno scenario post-apocalittico, non è rimasto più nulla da vivere?
Sia chiaro, nulla di male a prescindere in tutto questo. Casomai di Alessandro D’Alatri, tutt’altro genere di film, portava avanti un discorso pro-famiglia e antiabortista, ma il racconto era onesto e dichiarato, e per questo rispettabile. Diverso è invece il caso del classico filmone allegorico all’americana, che sembra raccontare qualcosa e, al contrario, racconta tutt’altro, in modo proditorio e disonesto. Tanto più che, quando gli autori non sono abbastanza scaltri come in questo caso, il discorso sottotraccia risulta malcelato e proprio per questo terribilmente volgare. Ribadiamo, quando il racconto cinematografico è tale e corroborato da un vero sguardo, del contenuto non importa a nessuno. Nel cinema americano da Guerra Fredda degli anni ’50 e ’60, per esempio, trovano posto immensi capolavori (uno su tutti, Va’ e uccidi di John Frankenheimer). Ma poiché Hillcoat, al momento, non mostra grandi doti di narratore, il suo racconto si profila brutto e corrivo, e “depressivo” (una delle accuse per cui, pare, il film ha avuto stupidamente problemi di distribuzione) perché offende l’intelligenza dello spettatore. Intelligenza in senso letterale, ovvero capacità di leggere oltre. In The Road, per leggere oltre, ci vuole così poco sforzo che, per converso, pare tutta una fatica inutile quella di “nascondere” i contenuti. Perché poi nasconderli, in fondo? Tanto vale, allora, essere onestamente e spudoratamente didascalici.