Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
La nostra vita di Daniele Luchetti: viva il cinema italiano
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
28/05/10 – Togliamoci subito di torno le note dolenti. Se La nostra vita non è un film veramente perfetto come avremmo voluto, lo è in piccolissima e quasi irrilevante parte per qualche sbavatura di sceneggiatura, in cui il discorso di Daniele Luchetti e dei rodatissimi Rulli e Petraglia emerge con qualche sottolineatura banale e fuori luogo, in netta contraddizione, oltretutto, con una scelta estetica forte e decisa verso il puro racconto, lontano cioè da insistenze e pedanterie. Capita spesso, nel cinema italiano, che gli autori abbiano un po’ paura di non essere capiti, e che così ricorrano alla tipica sequenza esplicativa in cui i personaggi si parlano addosso e si autodefiniscono, o definiscono l’altro. Tre esempi: la breve sequenza intorno al tavolo, all’inizio del racconto, in cui l’aspirante “padroncino” Claudio si confronta con Loredana, cassintegrata, e l’insistenza di questa nel sottolineare le deplorevoli condizioni lavorative del nostro Paese (con annesso commento qualunquistico sull’intervento dei sindacati), poi la tirata di Gabriela, dopo aver fatto l’amore con Claudio, sugli italiani che pensano solo al denaro e non sono capaci di viversi i sentimenti, e, sul finale, il pistolotto (telefonatissimo) di Andrei che getta in faccia a Claudio la sua raggiunta, e agognata, aridità e solitudine. Inutili pedanterie su un racconto che, al contrario, si spiega benissimo da solo. Nel far questo, va detto, Luchetti è un po’ più scaltro della media, poiché discioglie tali brani esplicativi in una generale e ammirevole fluidità di racconto. Le chiacchiere intorno al tavolo sono per l’appunto chiacchiere, “buttate là” e informali: stessa cosa per la sequenza con Gabriela, ben smorzata dall’ironia di Claudio. Un po’ più stentorea e stridente appare invece la tirata finale di Andrei, così come è fin troppo esplicito l’intento riposto nel titolo stesso dell’opera. A volte meglio scrivere immagini, che parole. E’ più che sufficiente.
Detto questo, La nostra vita resta comunque il miglior film italiano di questa stagione. Dopo Mio fratello è figlio unico, Daniele Luchetti conferma di aver raggiunto una personalissima maturazione artistica, anche piuttosto lontana dai suoi esordi. Per molti anni le sue opere hanno oscillato tra generi e narrazioni sensibilmente diversi, e inaspettatamente hanno finito per coagularsi nel dramma sociale aspro e arrabbiato, con una non comune attenzione al racconto umano, avvitato intorno a un personaggio ben indagato nella sua realtà. Psicologia narrata attraverso fatti e azioni, l’essere umano narrato da un esterno che però radiografa significativamente l’interno, cosicché il racconto si mantiene psicologico e sociale, individuale e collettivo. E la rabbia, si badi bene, non è mai convenzionale rabbia sociale, bensì rabbia per un’umanità ferita, costretta a dolorosissime compensazioni per fare i conti con la realtà. Una vera, indiscutibile passione per il proprio racconto, viva e contagiosa. Luchetti abbandona anche quel tanto di letterario che affiorava nella costruzione drammaturgica di Mio fratello è figlio unico (d’altra parte, si trattava di un’opera tratta da fonte narrativa preesistente) e si affida al dialogo reale, più vero del vero, al racconto per immagini di un grande affanno umano, concentrando tutta la narrazione in una meravigliosa e lacerante figura principale. Per gradi e per spostamenti progressivi, correggendo il tiro di sequenza in sequenza tramite una narrazione apparentemente libera e divagante, Luchetti non ci racconta soltanto la prigionia di un padre di famiglia vittima di sovrastrutture culturali (stracolme di simboli e categorie) delle quali non è nemmeno consapevole, ma riesce a focalizzare una problematica universalmente italiana, ovvero la rimozione del dolore, l’incapacità di dare spazio ed espressione a una dimensione intima che richiede coraggio e vera forza interiore. Claudio, invece, “sostituisce”, compensa, dal momento del lutto, che passa quasi inosservato, in poi. “La nostra vita” attuale che Luchetti ci vuol narrare, probabilmente, non è quella del disagio economico e della mescolanza indistinta delle categorie morali, per cui non è un problema, per esempio, avviare un’impresa edilizia con denaro proveniente da traffici di droga, bensì è la nostra vita della perdita di contatto con se stessi. L’unico momento di vero, straziante dolore che Claudio si concede è, non a caso, la canzone di Vasco Rossi gridata al funerale di Elena, convinto, per l’appunto, che “la vita continua anche senza di noi”.
La nostra vita è moralistico e didascalico? Come dicevamo in prima battuta, qua e là il racconto cede sì a un eccesso di evidenza, ma mentre ci narra le ciniche traversie di un sognatore meschino, prosegue il discorso in altre direzioni meno dichiarate. E non c’è pregio più bello, per una sceneggiatura, della capacità di raccontare “altro”, mentre si racconta. Un’ultima nota: Elio Germano, che già aveva dato prova di ottime doti attoriali, qui è più bravo che mai. Viva il cinema italiano.