Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Draquila di Sabina Guzzanti: piccoli Michael Moore crescono, meno divertente, meno personalistico, più polemico e drammatico
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
14/05/10 – Di Sabina Guzzanti si apprezza innanzitutto l’ostinazione. In un pessimo film di Philip Kaufman sul marchese De Sade (Quills) gli autori fantasticavano che, con estremo e violentissimo atto censorio, al marchese si arrivasse a tagliare la lingua per recidere definitivamente l’oscenità delle sue parole. E che il marchese, però, continuasse a dare espressione a se stesso scrivendo con il proprio sangue e poi con i propri escrementi. La Guzzanti non arriva certo a questo e si spera che non ci debba arrivare mai, però man mano che le riesce sempre più difficile parlare al pubblico di ciò che le sta a cuore, si reinventa nuovi strumenti, cerca altre strade e, incredibilmente, da simpatica cabarettista-imitatrice si sta reincarnando in apprezzabilissima filmmaker, seria compositrice di documentari-pamphlet dotati di buona narrazione, forza argomentativa e sguardo cinematografico. La tv mi caccia fuori? Poco male, mi armo di videocamera e mi metto a raccontare. Paradossale vantaggio secondario positivo della censura: avremo perso un’imitatrice televisiva neanche poi tanto eccezionale, ma abbiamo trovato una buona autrice di cinema. Da sbellicarsi di risate, semmai, sarà vedere se i suoi film saranno poi acquistati dalle tv, e da quali.
Piaccia o non piaccia, e il suo discorso ci appaia convincente o meno, dal punto di vista strettamente narrativo non possiamo negarle una grande sagacia e una sincera passione verso il proprio racconto. Rispetto a Viva Zapatero!, innanzitutto, è in netta crescita la qualità delle riprese. Sulla falsariga della nuova tendenza documentaria portata alla ribalta da Michael Moore, la Guzzanti mescola materiali eterogenei, dando netta preminenza alle voci della popolazione aquilana, ferita e annichilita, ma anche, in parte, entusiasta per la prontezza di ricostruzione mostrata dall’attuale governo. Poi, con i tratti di un vero work-in-progress, l’autrice dà voce alle difficoltà da lei stessa incontrate per effettuare le riprese, testimoniando un surreale clima autoritario innescato da una bizzarra lettura delle norme di sicurezza da parte della Protezione Civile. Infine, allarga il discorso alla lobby tra Stato e la stessa Protezione Civile, dando conto di come l’impazzimento della cultura del privato stia trasformando il nostro paese in una vera e preoccupante macro-azienda.
Quel che interessa di più alla nostra analisi risiede negli specifici strumenti narrativi adottati dall’autrice: per il documentario, si sa, non si prevede un vero lavoro di sceneggiatura, ma ci si muove tutt’al più sulla base di un (non indispensabile) trattamento, che però è soggetto alle più diverse modifiche in fase realizzativa. Quando ci si muove a caccia di realtà, essa si distende davanti a noi imprevedibile e mai, ovviamente, preordinata. Sta al filmmaker avere la prontezza e la capacità di catturare i frammenti significativi, seguendo un percorso più interiore che oggettivo. Manca, per l’appunto, l’oggettività della sceneggiatura scritta. In tal senso, la sceneggiatura del documentario si sovrappone al montaggio. Mai come per il documentario il film si fa al montaggio. Nel lavoro della Guzzanti troviamo tracce di tale metodo operativo in modo evidentissimo. Di nuovo, Michael Moore è un ottimo maestro, e come lui la Guzzanti assembla interviste, materiale di repertorio, panoramiche e piccoli brani di rudimentale animazione in funzione di un’affabulazione che giunge correttamente allo scopo. Paradossalmente, la Guzzanti che viene dal comico televisivo è molto più seria del guascone Michael Moore. La figura di Moore è sempre pesantemente ingombrante, non solo decide il montaggio e la tendenza della propria narrazione, ma la sottolinea due, tre, cento volte, tramite continui interventi personali in inquadratura spesso in chiave di grottesco. La Guzzanti è più discreta, pone le sue domande in modo sobrio (uno dei brani più belli, la breve intervista alla signora anziana in albergo), non appare quasi mai in camera, e usa la propria voce a commento ma quasi decolorandola di qualsiasi espressività. Col risultato di essere molto più efficace nella narrazione del drammatico, e di fare polemica tramite il dramma. Ricordiamo tutti sicuramente la chiusura di Fahrenheit 9/11 con il lunghissimo brano della madre del soldato in lacrime davanti alla Casa Bianca. Moore non ci ha comunque commosso, troppo evidente e sfacciata è la sua ricerca, in quel caso come spesso in tutta la sua opera. La Guzzanti, invece, narra un dramma collettivo di una città, che, nella sua lettura, si riconverte in dramma nazionale.
L’allieva supera il maestro, quindi? Anche solo considerando i mezzi sicuramente più ricchi a disposizione di Moore, è praticamente impossibile un paragone, e poi non serve. Al di là delle individuali convinzioni politiche, forse abbiamo semplicemente trovato in Italia una buona filmmaker, molto umile nel suo approccio narrativo. E di questo c’è da esser fieri, sempre e comunque.